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La scuola svedese parla arabo



Nello Stato scandinavo l’afflusso di immigrati è così alto, e prosegue da così tanto tempo, che ha cambiato la struttura della popolazione. Ne sono prova alcuni istituti dove i giovani studiano nella lingua d’origine, perché quella del Paese ospitante è minoritaria.

«Stiamo vivendo un ricambio di popolazione. Puoi pensare a quello che vuoi... Ma è semplicemente un fatto. Questo è in realtà quello che stiamo attraversando, e in qualche modo dobbiamo affrontarlo». A parlare è Jim Frölander, responsabile dell’integrazione nel comune di Filipstad, appena 7 mila anime nel cuore della Svezia rurale. Qui, nella contea di Värmland, tra il 2012 e il 2018 almeno 640 svedesi nativi hanno lasciato la città, letteralmente rimpiazzati da 963 persone nate invece all’estero, che si sono trasferite esacerbando la crisi finanziaria di una regione dove continuano ad aumentare disoccupazione, dipendenza da droghe e mancanza di servizi essenziali come quelli sanitari e legati all’istruzione.

Non sono tanto coloro che se ne vanno da Filipstad a preoccupare (giovani di vent’anni e uomini fino alla soglia dei 65, che fanno parte della cosiddetta «mobilità lavorativa»), ma piuttosto i nuovi arrivi. Si tratta, infatti, quasi sempre di persone senza le qualifiche minime per entrare nel mercato del lavoro: anziani, analfabeti o con un livello di istruzione molto basso, che si portano dietro crescenti richieste di assistenza. Un ulteriore peso sulle casse comunali, già oberate dall’alto tasso di disoccupazione e dai conseguenti esborsi per il welfare. Oltretutto, i nuovi arrivati - da Siria, Iraq, Somalia, Eritrea, Afghanistan - spesso sono musulmani credenti che pretendono maggiori spazi per praticare l’islam. Ciò contribuisce a inasprire il rapporto con la comunità locale e, in passato ha provocato episodi di vandalismo e scontri con la polizia.

Storicamente, la Svezia è stata un rifugio per i profughi: il terzo al mondo in per accoglienza, dietro soltanto a Canada e Australia. Ma qualcosa è cambiato. Almeno a giudicare dall’impatto che ha l’accoglienza sulla vita quotidiana e sulle tradizioni locali svedesi. Quello di Filipstad, infatti, non è certo un fenomeno isolato. Anche a Malmö - la terza città svedese per numero di abitanti (350 mila), che guarda Copenaghen da lontano - la maggioranza degli studenti ha un passato o un presente di migrazioni.

Secondo il governo della città, del resto, un terzo dei residenti di Malmö è nato all’estero e, anche in questo caso, proviene dal Medioriente e dall’Africa. Ma, a differenza di Filipstad, qui si continua a volere un hinterland del tutto separato dal mondo e dalla cultura scandinavi. Sono gli stessi docenti dell’università di Malmö a ipotizzarlo: «Occorrono nuove strutture educative in cui i migranti possano studiare nella loro lingua madre, in particolare l’arabo, visto che lo svedese ormai è una lingua minoritaria» sostiene Erica Righard, che si occupa di assistenza sociale. E lo stesso vale per le scuole primaria e secondaria: nell’intento di facilitare l’integrazione di tutte le minoranze, si vorrebbero creare dei veri e propri centri arabo-musulmani che facciano sentire a proprio agio i «nuovi» svedesi.

Nella stessa direzione va la richiesta di modificare la legge che impedisce la raccolta d’informazioni statistiche riguardanti l’etnia, l’origine e la religione di un singolo cittadino. «Con informazioni più dettagliate sull’identità delle persone» afferma Righard «sarebbe più facile contrastare la discriminazione basata sulle differenze guidate dalla migrazione». È un pensiero comune in quella parte di Svezia progressista. Anche perché, secondo recenti statistiche, la trasformazione socio-culturale in atto pare inarrestabile: gli svedesi saranno meno della metà della popolazione entro il 2065 se gli attuali livelli di immigrazione nazionale rimarranno invariati, e nel 2100 ci saranno tanti musulmani quanti cittadini svedesi. Gli autoctoni diventeranno insomma una minoranza nel proprio Paese in meno di un secolo, con inevitabili conseguenze politiche, culturali, sociali. E religiose.

Il dibattito è acceso, però. Perché non tutti si rassegnano. «Il parlamento ha deciso all’unanimità nel 1975 che la Svezia doveva essere un Paese multiculturale» scrive lo storico quotidiano svedese Folkbladet. «A quel tempo, oltre il 40 per cento degli immigrati erano finlandesi. La situazione è cambiata. Nel 2019, l’88 per cento degli immigrati erano non occidentali e il 52 per cento musulmani. Pertanto, si è verificato un enorme cambiamento culturale nella popolazione immigrata, visto che il suo gruppo più numeroso è passato dall’essere finlandesi all’essere musulmani». Riflessioni che sui media si accompagnano a un’altra realtà: la crescita della criminalità. Oltre metà dei reati comuni sarebbero riconducibili a questa parte della popolazione, seguendo le statistiche del Consiglio svedese per la prevenzione del crimine (Brå), dove si scopre che le ondate migratorie hanno avuto un ruolo sproporzionato. E questo purtroppo vale soprattutto nei reati contro la persona, come le aggressioni sessuali: negli ultimi cinque anni il numero di adolescenti d’età compresa tra 15 e 17 anni che ha subìto violenze è aumentato del 51 per cento, mentre i reati sessuali contro donne di età superiore ai 18 anni è cresciuto del 27 per cento. Non c’è solo la televisione di Stato SVT a indicare come il 58 per cento degli uomini con condanne per stupro o tentato stupro sia riferibile a immigrati nati al di fuori dell’Ue; anche l’inglese Bbc ha riferito dati allarmanti, secondo cui la percentuale di uomini nati all’estero condannati per violenza sessuale sarebbe l’80 per cento del totale.

Le statistiche choc sugli stupri in Svezia differiscono drasticamente da quelle di altre regioni d’Europa che si sono rifiutate di accogliere migranti: con 73 cittadini su 100 mila che hanno denunciato un caso di violenza nel 2017, l’aumento dei casi in Svezia si attesta al 24 per cento nell’ultimo decennio. Al contrario, in un Paese notoriamente dai confini chiusi come l’Ungheria il tasso scende al 3,9 per cento ogni 100 mila abitanti. Mentre il tasso della Polonia è ancora più basso, addirittura al 3 per cento. Numeri sovrapponibili anche ad altri reati: in Svezia omicidi, sparatorie, stupri di gruppo e rapine provengono in maggioranza da un contesto migratorio.

Nonostante i problemi, però, il politicamente corretto continua a dominare le istituzioni svedesi a ogni livello. Lo si è visto ancora nel gennaio scorso, quando un tribunale distrettuale ha revocato la sentenza di espulsione per un rifugiato siriano, Majd Shhada, nonostante fosse stato condannato otto volte per reati quali stupro, aggressione, furto e abuso di droghe. Nel revocare la sua espulsione, la Corte d’appello del Lower Norrland ha sostenuto che l’imputato non solo poteva essere «a rischio di servizio militare nel suo Paese d’origine», ovvero la Siria, ma che «ha la possibilità di diventare presto genitore». Peccato che quella gravidanza fosse frutto di uno stupro.

Sarà anche per questo che non tutti gli svedesi si rassegnano alla situazione. Come dimostra la crescita vertiginosa dei consensi per i Democratici svedesi (Sverigedemokraterna), partito della destra radicale con vecchi legami neonazisti, oggi divenuto la terza forza del Riksdag, il parlamento svedese. Sempre più cittadini sembrano calamitati dal ritornello populista del loro discusso leader Jimmie Åkesson, che al primo posto del programma politico ha inserito proprio la lotta all’immigrazione per richiedenti asilo, prevalentemente di credo islamico. Questa formazione a oggi è esclusa dal governo comunque di destra - retto da una coalizione guidata dal Partito moderato di Ulf Kristersson - a cui Åkesson offre un appoggio esterno. Ma dopo decenni di immigrazione libera, la strada degli svedesi rimane in salita.

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