foto da Quotidiani locali
TRIESTE. Se nasci in una famiglia d’arte, lo spettacolo è nel tuo dna. Non te lo puoi togliere di dosso. Luciano D’Antoni, attore, era nato da una stirpe di teatro. Stirpe di un teatro minore, però, la sua: povero, scavalcamontagne, un teatro che girava la provincia, rappresentando spettacoli ignoti ai frequentatori dei sontuosi edifici delle grandi città, delle sale illuminate che tra’800 e’900 erano il maggior divertimento della borghesia.
Come i propri antenati – i Comici dell’Arte – le stirpi del teatro popolare italiano viaggiavano invece con i loro palcoscenici mobili, carri di Tespi, baracche. Si fermavano per una settimana in una piazza, magari bastava uno slargo. E poi via di nuovo. Offrivano un repertorio fatto di drammi strappalacrime, farse, vite di sante. I titoli cambiavano sera per sera. L’attrazione era la prima attrice, o il primo attore, impresario capocomico, padre padrone di tutto il suo bizzarro clan di artisti. Più esattamente, una “famiglia d’arte” . Dalle più note, come i Rame (da cui discenderà ad esempio Franca), i D’Origlia-Palmi, i Carrara, fino a quelle meno conosciute e documentate.
Luciano D’Antoni – che era nato nel 1934 – apparteneva alla stirpe dei D’Antoni. A quella vita nomade si era abituato subito, sballottato in lungo e in largo per una penisola dove una compagnia di teatranti poteva essere accolta anche con “ecco che arrivano froci e puttane” . Stereotipi e pregiudizi duri da sradicare, nonostante Eleonora Duse e Alessandro Moissi avessero già vestito l’etichetta di divi. In quella promiscuità che intrecciava famiglie e titoli di tragedia, i D’Antoni decisero di sciogliersi, e il giovane Luciano passò alla compagnia Nistri, con la quale venne apprezzato soprattutto per il fisico, il bel viso, un carattere che non manifestava pretese esagerate. Lo accompagnava una fama di dongiovanni. Anche per questo fu costretto spesso a cambiare compagnia.
Una volta – era la fine degli anni ’50 – il carro mobile dei Moretti-Consonni, con i quali stava lavorando, si fermò nella piazza di Savona, accanto al più illustre Teatro Chiabrera. Fu là, in una matinée, che gli capitò di assistere a uno spettacolo delle sorelle Gramatica, “Le medaglie della vecchia signora” . Per la prima volta D’Antoni riconobbe l’eccellenza artistica, quella che eleva il “mestiere” a “progetto d’arte”.
Da allora l’attore cominciò a sognare un teatro diverso, anche se la proverbiale miseria delle compagnie capocomicali lo costringeva a proseguire per la sua strada nomade: camere in affitto, un pasto sì uno no, la provincia ligure, quella toscana, i piccoli centri dell’Emilia. Scritturato dalla compagnia Carrara-Anselmi, arrivò pure da queste parti: Portogruaro, Cividale, Muggia. A Trieste si fermarono per quasi due anni. Perché la bora volle giocare loro un brutto scherzo. Una raffica più violenta scoperchiò il carro mobile e i Carrara-Anselmi rimasero senza un tetto.
Tutto si potrebbe dire del pubblico triestino, ma non che non fosse generoso. Fu avviata una sottoscrizione pubblica per la riparazione, e per due inverni fu concesso alla compagnia di risiedere e lavorare nel piccolo teatro di Palazzo Vivante, di fronte a villa Sartorio. Accadde così che l’attore venisse notato. Talent scout fu Sergio D’Osmo, che dirigeva lo Stabile giuliano e sentiva la necessità di allagare l’organico in un momento di grande adesione di pubblico. L’occasione che D’Antoni attendeva da anni prese corpo. Avrebbe potuto finalmente lasciarsi alle spalle la vita nomade dei guitti e far parte di una compagnia stabile. Piccole parti, scritture stagionali, all’inizio. Ma non sarebbe più stato necessario mettersi alla disperata ricerca di una piazza, di un pubblico qualsiasi. Non c’era più da temere la platea vuota, né il salto del pasto.
In quegli anni’60, nella carriera di D’Antoni si riassume la scomparsa di un teatro dai caratteri ancora ottocenteschi e la diffusione di un teatro “servizio pubblico” come quello inaugurato vent’anni prima da Strehler e Grassi a Milano. Una conversione professionale, una paga abbastanza certa, tutela sindacale, una “casa” d’arte. Assieme alla madre Jole Cavallari (attrice impegnata anche lei in qualche allestimento dello Stabile) D’Antoni si stabilisce a Trieste. Anche se la valigia è sempre pronta, perché di stabile, il teatro italiano conosce solo gli edifici. E le tournée sono una pratica quotidiana. Accanto agli attori più noti e ai più rispettati registi che lavoreranno per lo Stabile del Friuli Venezia Giulia dagli anni Sessanta in poi, D’Antoni compare in quasi tutte le locandine di quei decenni. Non è protagonista, e la sua indole non gli fa dire di no a tanti altri ruoli di cui una compagnia stabile ha bisogno, soprattutto in tournée: suggeritore, amministratore, tuttofare.
È ne “I nobili ragusei” , che nell’ottobre 1969 restituisce alla città il Politeama Rossetti. È nelle formidabili “Maldobrìe” (regia Francesco Macedonio) che segnano il maggior numero di abbonati di sempre. È in compagnia quando “Le storie del bosco viennese” (regia Franco Enriquez) debutta addirittura al Burgtheater a Vienna. Accompagna i Piccoli di Podrecca nella tournée in Unione Sovietica. Non solo. Presta la voce alla radio e all’operetta, Sandro Bolchi lo vuole in tv per “Anna Karenina” e finisce pure in un film, “Porca vacca” , con Renato Pozzetto. Una medaglia dell’Agis certifica i suoi 25 anni di meritoria attività nel settore dello spettacolo.
In realtà, è una vita. La trilogia pirandelliana di Giuseppe Patroni Griffi (stagione 1988-’89) chiude il suo lavoro di palcoscenico. I suoi colleghi di lavoro lo ricordano però a passeggio per il Viale, proprio sotto al Rossetti, o seduto ai tavolini delle gelaterie. Fino a qualche mese fa, quando Luciano D’Antoni, a 88 anni, scompare. Testimone vivente di quella trasformazione, che dal “teatro all’antica italiana” , ha ridefinito nel nostro Paese l’immagine degli attori e delle attrici di prosa.