Nel suo rapporto annuale il Censis disegna il volto di un’Italia malinconica, ripiegata su se stessa, forse vicina al bivio tra rassegnazione e angoscia, certo a corto di speranza. La sequenza delle crisi (pandemia, guerra, caro energia, inflazione...) unita al progressivo calo dei salari reali (meno 12% in 15 anni, dato peggiore nel G20, dato di 2 giorni fa) pesa tantissimo: non ne siamo usciti migliori, come ci pronosticavamo nel panico del primo Covid; e forse neppure tanto diversi, anche se lo stesso Censis invita a non definire più “populiste” le aspettative individuali e le richieste di equità.
Perché nascono dalle nostre paure, dal senso di inadeguatezza alle sfide che il futuro ci paventa, dall’incombere di congiunture senza confini e senza controllo possibile da parte nostra. Al di là delle definizioni sociologiche e della perfetta rispondenza di un campione di indagati al complesso della realtà e del sentimento di un popolo, lo studio rileva una fragilità non più solo del sistema ma della comunità, delle persone, risorsa iniziale e insieme obiettivo finale del sistema stesso. Che andrà inconsapevolmente e del tutto in tilt se continuerà ad avvitarsi: in fantasmagoriche discussioni, ad esempio, sull’uso del Pos per pagare cappuccio e brioche oppure a evocare nostalgie di tempi irripetibili o fantasmi inesistenti che minaccerebbero residue sicurezze (ma quali...?), oppure ancora resterà inchiodato alla contabilità dei bilanci come totem della sopravvivenza.
Lo scatto in avanti, la capacità di resistere e insieme immaginare un rischio e provare a correrlo, non lo si può sempre chiedere ai cittadini. Essere governati è un diritto, governare è avere cura, non alimentare le illusioni di guarigione attraverso scorciatoie e demagogie: la depressione non è un male minore.