foto da Quotidiani locali
C’era un tempo in cui l’Istria era una terra selvaggia e poverissima, ma che poteva riservare sorprese incredibili ai naturalisti che osavano recarvisi in viaggio, per poi ritornare alla civiltà forti di nuove scoperte. Esemplari di piante, insetti, minerali, che poi venivano raccolti nei musei dell’epoca.
Negli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento l’Istria fu battuta più volte - rigorosamente “col samèr”, l’asino, come si usava al tempo - da Bartolomeo Biasoletto, insigne farmacista e botanico originario di Dignano d’Istria, che a Trieste visse tre quarti della propria vita: fu il creatore del primo nucleo dell’Orto Botanico ed ebbe un ruolo di primaria importanza nel rimboschimento del Carso triestino. Dei suoi viaggi alla ricerca di nuove piante con cui arricchire l’erbario dell’Orto Botanico abbiamo notizia di prima mano, grazie a quanto scritto di suo pugno. Ma anche di seconda: il naturalista Claudio Perencin, in “Itinerari botanici con Biasoletto nell’Istria dell’800” (Atti, vol. XXXIV, 2004) racconta di due viaggi del farmacista istriano, uno compiuto nel 1928, con gli entomologi Waltl e Oberleitner e l’altro cinque anni più tardi, in compagnia del botanico e politico triestino Muzio de Tommasini. Nella primavera del 1933 proprio Biasoletto rispondeva divertito a de Tommasini, che gli chiedeva lumi sul viaggio: «Come se viagia in Istria? Col samèr». Spesso in realtà si andava a piedi, perché l’asino, serviva per portare il carico sulla groppa. Le strade istriane erano strette e polverose, l’asfalto ancora un’utopia.
La maggior parte dei villaggi era raggiungibile tramite carrarecce e ci si poteva arrivare con carretti trainati da povere bestie. Gli umani, poi, spesso erano altrettanto poveri: non a caso i cronisti dell’epoca descrivevano gli istriani come gente apatica, che non conosce il sorriso. A questa amara conclusione arrivano anche Biasoletto e de Tommasini alla fine di un loro viaggio botanico attraverso l’Istria: la miseria, vicina all’indigenza, era presente non solo nelle zone montuose tra Pisino e Capodistria, ma anche in zone fertili come Cepich, Chersano, Albona, nei dintorni di Rovigno. Dal punto di vista naturalistico però quella terra non era per nulla povera: Biasoletto vi scopre per esempio un trifoglio, a Brioni Maggiore, che viene poi battezzato proprio con il suo nome (Trifolium biasolettii). Ancora, nel lago di Cepich, rintraccia la ninfea comune, che settant’anni dopo in Francia Monet fa rivivere sulle proprie tele.
Nei pressi di Capodistria trova la Carlina Utzka, con il suo bellissimo e grande fiore, oggi inesistente in quella zona. Vicino a Portole ammira gli appariscenti fiori rosati della Paeonia officinalis L., ormai scomparsa da quel percorso.
I due viaggi sono decisamente avventurosi, soprattutto quando ci si allontana dalla strada maestra. Biasoletto e De Tommasini restano disgustati, per esempio, alle terme di Santo Stefano, per l’infima qualità dei bagni, e non si accorgono neppure che sulle rocce che sovrastano le sorgenti sulfuree cresce la rara Moehringia, più tardi chiamata Moehringia tommasinii Marchesetti. A Rozzo arrivano aiutandosi con le mani per non cadere dai dirupi e restano impressionati per lo squallore delle case. Vorrebbero comprare del vino e del pane, ma il vino viene rifiutato per mancanza della licenza per venderlo e il pane è irrintracciabile. Neppure l’acqua è vicina, va raccolta in uno stagno fuori dall’abitato ed è torbida e nauseabonda. Va meglio a Lupoglav, dove vengono accolti dal barone Paolo di Brigido che mette a loro disposizione due cavalli. E poi nel villaggio di Mala Uzka, dove si fermano prima dell’ascesa sul Monte Maggiore e possono dormire e rifocillarsi in una specie di casa-osteria. Ci sono momenti in cui, durante il viaggio, si smarriscono e vagano tra rocce e cespugli, con la paura di venire assaliti dai briganti. Neanche il canto degli usignoli riesce a calmarli. Ma nonostante le difficoltà l’entusiasmo per la natura che li circonda rimane, fino alla fine di questi ardui viaggi, immutato: continuano a voler vedere tutto, toccare e annusare ogni pianta, darle un nome. E quando ritornano, ricchi di tesori botanici, non avvertono più la stanchezza, già pronti per partire per la prossima avventura. —
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