foto da Quotidiani locali
Se un romanzo può tollerare qualche pagina di troppo o una frase trascurata, se addirittura a volte richiede tempi vuoti e spazi poco definiti dove perdersi, il racconto al contrario è il regno della tensione perfetta: una linea che corre tesa dalla mano dello scrittore al bersaglio, limpida, senza esitazioni.
La raccolta di racconti della scrittrice Lana Bastašić “Denti da latte”, da poco pubblicata da Nutrimenti (pagg.123, euro 18) nella traduzione magnificamente accordata di Elisa Copetti, è un esempio magistrale di questa tensione che non cede mai. Dodici racconti in cui l’autrice non sbaglia un colpo, non esce di un millimetro dal centro del bersaglio. Dodici storie da leggere e rileggere, ammirati dalla maturità dei temi, dallo sguardo, dagli affondi di una lingua implacabile.
Cercare la biografia di Lana Bastašić su internet è un esercizio che da solo racconta la letteratura balcanica contemporanea. Secondo la pagina inglese di Wikipedia è una autrice bosniaca e serba, per il sito di commenti di lettori Goodreads è croata, alcuni siti più cautamente la indicano nata nella ex Jugoslavia. Nessuno di loro dice il falso. Perché Lana Bastašić è nata nel 1986 a Zagabria, allora Jugoslavia e oggi capitale della Croazia, è cresciuta a Banja Luka, città attualmente parte della Bosnia Erzegovina, ma anche capitale della Repubblica serba di Bosnia. Insomma, i Balcani in una biografia.
Dopo aver scritto poesie e racconti, Bastašić arriva alla notorietà internazionale con il romanzo “Afferra il coniglio” (Nutrimenti 2020) tradotto in diciotto lingue e con cui ha vinto il Premio di Letteratura Europea, il Premio Internazionale Latisana e il Premio Nin, il più prestigioso riconoscimento in lingua serba. Già in quel primo romanzo, un road trip che faceva i conti con la memoria delle guerre degli anni Novanta, Bastašić mostrava un’impressionante capacità nel raccontare la disintegrazione della società balcanica, e lo faceva attraverso la concretezza dei corpi, i corpi delle donne, con una lingua scabra, essenziale e concentrata sui gesti, priva di retorica ma al contempo poetica. Una precisione che ha l’immediatezza deflagrante di uno sparo, e la ritroviamo in questa raccolta di racconti dove a dominare è la voce dell’infanzia.
Protagonisti sono bambini, più spesso bambine, che guardano con implacabile lucidità al mondo degli adulti, senza piagnucolare per l’amore che non arriva o per la mancanza di cura, imparando a fare la spesa da soli e a tacere quando si viene picchiati.
I piccoli paesi dei Balcani che Bastašić racconta potrebbero essere una qualsiasi piccola provincia europea dove i vicini mormorano e spiano, e i giudizi vengono camuffati da solleciti consigli. Dove le donne, soprattutto se sole, sono costantemente giudicate, mentre gli uomini si accaniscono sui figli o gli strizzano l’occhio commentando le tette dell’istruttrice di nuoto. Un mondo dove i bambini sono sopraffatti dal disagio degli adulti e imparano a cavarsela senza fare domande, dove le bambine hanno la temerarietà delle azioni inaudite, spietate nel liberarsi da sole delle situazioni che le tormentano senza che nessuno le veda.
Lo sguardo di Bastašić è sempre politico, senza mai fare manifesti. Mostra una società patriarcale, quella balcanica ma anche la nostra, dove sono gli uomini a decidere dei corpi delle bambine: i padri non vogliono che le figlie si mettano lo smalto o si curino le sopracciglia altrimenti “diventeranno delle puttane”, gli insegnanti di ginnastica non sopportano le ragazzine brave in matematica e le umiliano sul campo da corsa. E le madri? Fanno quello che possono, a loro volta stritolate dai modelli e condannate dal perbenismo della provincia: mogli che nascondo la stranezza di un marito che vaga nei boschi a fare chissà cosa, madri che tappano le orecchie ai figli piccoli perché non sentano che i più grandi vengono picchiati fino a sanguinare dal labbro, donne che aspettano amati e donne che non ce la fanno a vestirsi al mattino, che hanno bisogno di una bottiglia di vodka per non guardare lo sfacelo della loro vita.
I bambini e le bambine di questo libro sono eroi straordinari che attraversano una società brutale e maschilista inventando le proprie vie di fuga, fosse anche solo aprendo una finestra per far uscire Dio dalla propria stanza (con tutto quello che questo significa in un Paese annientato da guerre dove la religione era spuntata all’improvviso come tratto di identità e divisione). Ragazzini che si muovono in una realtà dove la morte è una presenza fisica, priva di enfasi, un elemento pratico dell’esistenza con cui si convive, più quotidiana che straordinaria. Un’alleata a volte. E dove l’immaginazione è un’arma potente in grado di aggiustare questa realtà disastrata, di invertire i rapporti tra un mondo di adulti che faticano a stare dentro le proprie vite e di bambini che trovano angoli da cui guardare alle tragedie che li attorniano, dando loro un senso.
Come accade nel racconto finale “Papà ritorna a casa”, l’unico dove la guerra entra esplicita e il frantumarsi delle identità si spiega con cristallina evidenza anche nelle differenze più inafferrabili, quelle tra i serbi di Serbia e i serbi di Bosnia, tra la vicina «che possedeva un accento belgradese finemente accordato» e la madre in cui «si sentiva la mancanza di consonanti dei bosniaci, cosa certo inaccettabile». Un racconto familiare dove la guerra è fuori dalla scena, raccontata, come spesso in Bastašić, per sottrazione e per questo più incombente: una guerra che si annida nei gesti di un padre tornato salvo dalla famiglia, ma che non sa più qual è il comportamento adatto con i suoi figli, nella sua casa. E allora non è importante sapere da che parte hai combattuto, perché la guerra fa differenze solo ai tavoli della politica, ma per chi combatte e chi attende la tragedia è uguale, e c’è sempre un padre che torna e prova a mettere a letto i propri bambini sussurrandogli: «Il tuo papà non è un uomo cattivo», senza riuscire a dargli il bacio della buonanotte.
