Mentre i media occidentali hanno seguito le elezioni statunitensi di MidTerm concentrandosi sui temi etici e ambientali, gli economisti di Al Jazeera hanno stilato le «cinque questioni economiche da tenere d’occhio» nell’imminente sfida alle urne dell’8 novembre. Inflazione, disoccupazione e crescita salariale, prezzi della benzina, crisi abitativa e recesso del prestito studentesco determineranno, per l’emittente satellitare con sede in Qatar, chi governerà il rinnovato Congresso - tra una settimana.
Ai media americani non è però sfuggita una «Red wave», un’onda rossa (il colore dei repubblicani) serpeggiante nel Paese e potenzialmente in grado di travolgere persino i collegi elettorali blindati storicamente dalla sinistra. Ancora una volta, insomma, l’America terrà il mondo col fiato sospeso per le sue imminenti elezioni di metà mandato. Dove si rinnovano tutti i 435 seggi della Camera dei rappresentanti, un terzo di quelli del Senato (35 su 100) e dove, in 36 dei 50 Stati, saranno eletti i nuovi governatori. Seggi e consensi fondamentali per determinare non solo quale sarà il nuovo equilibrio al Congresso, ma anche la direzione dell’America rispetto alle politiche energetiche, all’indirizzo economico, alle strategie nel conflitto russo-ucraino e, in definitiva, ai rapporti con l’Europa e con l’eterno rivale asiatico: la Cina dell’appena riacclamato leader Xi Jinping, con cui le relazioni diplomatiche sono da tempo gelide. Quasi un atto d’accusa è il copioso dossier redatto dalla China Society for Human Rights Studies (la più grande organizzazione non governativa nazionale nel campo dei diritti umani in Cina, ovviamente sostenuta dal potere di Pechino), zeppo di rimandi alle «gravi violazioni dei diritti umani commesse in Medio Oriente e altrove dagli Stati Uniti».
Non sorprende, dunque, che la posta in gioco di queste elezioni di medio termine, in genere un referendum anticipato anche sull’operato del presidente in carica, sia per gli Stati Uniti la tenuta stessa della «roadmap» politico-economica tracciata dalla Casa Bianca. Alla Camera dei rappresentanti, gli ultimi pronostici danno in uscita la speaker Nancy Pelosi, con il passaggio del martelletto all’attuale leader di minoranza Kevin McCarthy. Mentre più defilata si staglia la probabile conquista, secondo i sondaggi di un paio di seggi, dell’Elefantino repubblicano al Senato. Con entrambe i rami del Congresso in mano all’opposizione, e soprattutto con l’agguerrita pattuglia di destra dei nuovi eletti, vicini all’ex presidente Donald Trump, per l’America si delinea un biennio turbolento. Con contrasti su tutti i fronti, a partire da quello bellico.
Non più scontato potrebbe essere il sostegno militare e finanziario all’Ucraina, se venisse ridimensionata la strategia interventista del presidente Volodymyr Zelensky. Giorni fa McCarthy ha avvisato che una maggioranza repubblicana non firmerà più «assegni in bianco» a Kiev, quando gli americani rischiano «di ritrovarsi in una recessione». A maggio sono stati 57 i deputati e 11 i senatori che hanno votato contro il pacchetto da 40 miliardi di dollari di aiuti militari destinati all’Ucraina. Con l’ingresso di esponenti conservatori più allineati all’agenda Maga (Make America great again), la lacerazione è destinata a deflagrare, anche nel campo progressista. Come dimostrato dal recentissimo addio della deputata democratica Tulsi Gabbard al suo partito, accusato di essere «sotto il completo controllo di una cabala elitaria di guerrafondai». Gabbard ha invitato i suoi colleghi «dalla mentalità indipendente» ad abbandonare l’Asinello democratico: «Ci stanno trascinando sempre più vicino alla guerra nucleare». Una posizione che non è più isolata. Giorni fa il Washington Post è entrato in possesso di una lettera, indirizzata a Biden, in cui 30 deputati dem esortano l’Amministrazione «a cambiare radicalmente la strategia sulla guerra in Ucraina» e a portare avanti «trattative dirette» con la Russia.
«Non ritengo prossima la fine della guerra in Ucraina e anzi credo che durerà ancora anni, in forma meno cruenta ma persistente» commenta Giorgio Radicati, già ministro consigliere a Washington e in seguito console generale a New York fino al 2003. «Certo è che se prevalesse un’amministrazione repubblicana ispirata ai principi che Trump ha attuato durante il suo mandato, sarebbe sicuramente meno vicina all’Europa, meno vicina alla Nato e meno coinvolta in questo conflitto». Sul fattore che determinerà l’esito delle urne, Radicati non ha dubbi: «La regola aurea è che l’americano vota con la mano sul portafoglio. Bush senior vinse la prima guerra del Golfo ma perse le elezioni perché si trovò nell’occhio del ciclone economico. Biden esce da una disastrosa ritirata in Afghanistan, con le esportazioni Usa ai minimi e un ciclo economico che difficilmente potrà riportare ai livelli del suo predecessore. È in una posizione molto scomoda e la perdita del Congresso, nonostante il presidente abbia il potere di veto, potrebbe trasformarlo davvero in un’anatra zoppa».
Se i repubblicani domineranno il Congresso, metteranno rapidamente fine al comitato ristretto della Camera che indaga sull’assedio a Capitol Hill del 6 gennaio. Mentre i democratici hanno appena convocato in aula Trump, esponenti del Grand old party annunciano l’apertura di commissioni di inchiesta e mandati di comparizione per dirigenti come Anthony Fauci sulla gestione della pandemia; il procuratore generale Merrick Garland sulle perquisizioni dell’Fbi di agosto alla residenza di Trump a Mar-A-Lago, fino a un possibile impeachment di Biden, legato agli scandali finanziari che hanno travolto il figlio Hunter. Ambiziosa la piattaforma elettorale di medio termine del partito, ribattezzata «Impegno per l’America» e ufficializzata dai repubblicani alla Camera il 23 settembre in Pennsylvania.
Nel patto elettorale si prevede di «frenare la spesa pubblica peggiore degli ultimi 41 anni», affrontare «la criminalità, inclusa l’immigrazione illegale record» e «il contrabbando di Fentanyl». Oltre a bloccare «i trilioni di spesa pubblica sconsiderata che abbiamo visto sotto il governo democratico». Uno scenario da incubo per i liberal, che a causa dell’impopolarità di Biden hanno dovuto affiancare ai loro candidati l’ex presidente Barack Obama per evitare una completa débâcle al voto. Secca la previsione dell’analista Blake Hounshell sul New York Times: «Ecco il problema delle elezioni: quando si rompono gli indicatori, di solito si rompono in una direzione. Sempre il quotidiano liberal ha definito «notevolmente apatici» gli elettori, dopo che un sondaggio ha mostrato che il pericolo per la democrazia non è la principale preoccupazione avvertita dagli americani: «Più di un terzo degli elettori indipendenti e un contingente più piccolo di democratici si sono detti aperti a sostenere i candidati che rifiutano la legittimità delle elezioni 2020, poiché hanno assegnato maggiore urgenza alle loro preoccupazioni sull’economia più che ai timori per la sorte del sistema politico del Paese».
Che non si tratti solo di «apatia», quanto di una probabile «delusione» dell’elettorato, in particolare negli Swing states, gli Stati elettoralmente in bilico, lo dimostrano i parecchi testa a testa, persino nelle roccaforti blu come Washington. A partire dalla clamorosa rimonta, in Pennsylvania, del «rosso» cardiochirurgo Mehmet Oz contro «l’azzurro» John Fetterman, un seggio considerato cruciale per la scalata del Gop al Senato. Pochi i punti di distacco per gli outsider repubblicani anche in Georgia, in Arizona, in Nevada dove il conservatore Laxalt è dato in vantaggio, in New Hampshire, Ohio, con il sopravanzare del repubblicano Vance sul democratico Ryan e in North Carolina. Fondamentali le battaglie tra governatori: dall’ascesa dello sfidante Lee Zeldin a New York, alla rimonta di Dixon in Michigan, passando per l’exploit in Arizona di Kari Lake, considerata un astro nascente e sostenuta da Trump. Al cui endorsement si possono ascrivere larga parte dei pronosticati successi alle urne dei nuovi volti conservatori. Chiamati a rinnovare il Congresso, e insieme il partito, in vista dell’appuntamento con le presidenziali del 2024. Dove non è scontato che ci sarà Trump, ma quasi certamente non ci sarà Biden, se il nuovo Congresso si tingerà di rosso.
