TRIESTE. All’epoca del volo sullo Space Shuttle Atlantis, nel 1992, Franco Malerba, il primo astronauta italiano della storia, e i suoi colleghi si nutrivano con cibo disidratato, conservato sottovuoto in piccoli contenitori di plastica, da riportare alla condizione normale iniettandovi la quantità d’acqua prescritta. «La qualità del cibo sullo Shuttle era a mio avviso assolutamente accettabile», afferma l’astronauta, ricordando come il suo menù preferito fosse composto da un risotto con pezzetti di pollo e dei broccoli saltati.
Ma quando fu chiamato per una dimostrazione televisiva da Pippo Baudo e preparò, a favore di telecamere, una porzione del suo secondo preferito, i broccoletti reidratati sommariamente fecero esclamare a un’assaggiatrice compassionevole: «Ammiro l’astronauta Malerba per il suo coraggio, ma ora lo ammiro di più sapendo che mangiava ‘sti broccoletti!».
L’aneddoto è ricordato da Malerba nel libriccino “Il cibo nello spazio” (Dedalo, pagg. 96, euro 12,50), che presenterà domenica 6 novembre alle 12 nella Sala Adriatica del DoubleTree by Hilton Trieste. L’incontro, a ingresso libero, è parte del ciclo Mondofuturo, la rassegna del festival del cinema di fantascienza Science+Fiction di Trieste che, tra documentari e incontri, indaga il cortocircuito tra fiction e realtà.
Per noi italiani, abituati a parlare di cibo quotidianamente, la storia della nutrizione nello spazio, che racconta di un’evoluzione in primis tecnologica, ha un fascino irresistibile. E narrata da Malerba, che agli aspetti puramente scientifici aggiunge episodi curiosi accaduti a lui e ai suoi colleghi, è anche molto divertente.
Come non sorridere infatti al racconto della missione Gemini 3, durante la quale il comandante Gus Glissom estrasse un panino con la carne “clandestino” che al primo morso dovette riporre perché le briciole iniziarono a svolazzare nell’abitacolo?
Perché un libro sul cibo nello spazio?
«Negli anni in cui ci si prepara al ritorno sulla Luna - risponde Franco Malerba - e ci si misura con tecnologie che potranno consentirci di creare le condizioni per vivere e lavorare sul suolo lunare, il cibo degli astronauti è una sfida fondamentale per la ricerca. Dovremo imparare a coltivare nello spazio, scegliendo le piante più adatte per dimensioni e tempo di crescita. Come i microgreens, micrortaggi con caratteristiche nutraceutiche molto utili per gli astronauti, ormai entrati anche nella cucina degli chef stellati».
Com'è cambiata la cucina in orbita dai primi voli a oggi?
«È migliorata sia dal punto di vista nutraceutico che della piacevolezza. Siamo passati dai programma Gemini, in cui si usava il low residue food, cibo a bassissimo contenuto di fibre, come cioccolato e noccioline, perché non esisteva un gabinetto spaziale, al cibo in tubetto. Quindi, con la nascita della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) e il prolungarsi delle missioni, siamo arrivati a una cucina più evoluta. Con Luca Parmitano abbiamo assistito al pranzo domenicale con la caponata e il tiramisù, con Samantha Cristoforetti è stata la volta della cucina vegetariana e salutare».
Cristoforetti è la prima donna astronauta italiana. Quando e come lo spazio si aprì alle donne?
«Nei primi programmi spaziali gli astronauti venivano da esperienze militari, tipicamente di pilota: erano persone che avevano già dimostrato di saper lavorare in situazioni in cui era a rischio la vita. Con il miglioramento delle tecnologie l’esperienza spaziale è diventata qualcosa di diverso, un’avventura culturale e scientifica che necessità di competenze differenti, per cui le donne sono fondamentali».
Durante la sua permanenza spaziale Cristoforetti ha fatto ampio uso dei social per comunicare. Ha fatto bene?
«Uno dei compiti più importanti di un astronauta è la comunicazione, perché in fondo è un emissario della collettività umana. Samantha ha il merito di essersi impegnata moltissimo su questo fronte: noi astronauti, anche dopo la pensione, abbiamo il compito di raccontare e testimoniare, per mantenere viva la fiamma dell’esplorazione spaziale e continuare a progredire».
La situazione internazionale di oggi, particolarmente critica, potrebbe influenzare le missioni spaziali?
«Nell’Iss vediamo astronauti che lavorano alacremente insieme, nonostante le diplomazie si guardino in cagnesco. È un modello di collaborazione che potrebbe ispirare i terrestri. E credo che anche se l’economia dovesse soffrire, gli investimenti pubblici nello spazio non verranno meno, per non complicare la situazione. Il Pnrr, con la sua quota parte di risorse dedicate allo spazio, alimenta le speranze e le aspettative delle aziende di settore».
Stiamo assistendo davvero a una “democratizzazione dello spazio”?
«La chiamerei “popolarizzazione”. Da un lato, grazie alle nuove tecnologie, è possibile anche per le piccole imprese e gli atenei costruire e lanciare in orbita piccoli satelliti. Lo spazio si è popolato di infrastrutture per le telecomunicazioni. Dall’altro stanno nascendo gli astronauti “commerciali”, che vanno nello spazio per realizzare progetti che stanno a cuore alla loro impresa, e sono in fase di progettazione e allestimento nuove stazioni spaziali ad hoc».
Quando torneremo sulla Luna?
«L’impegno è per il 2025 o poco oltre, con una missione che punta a costruire un habitat permanente su suolo lunare. Tutta un’altra faccenda rispetto all’allunaggio, rischiosissimo, del ’69: all’epoca fu come andare sull’Everest e poi scappare dopo aver scattato qualche foto. L’aspettativa stavolta è che la missione sulla Luna consenta di sviluppare tecnologie e competenze utili sulla Terra».