L’inflazione in Germania sfiora l’11 per cento. Il grafico degli ultimi 12 mesi mostra un’impennata da febbraio in poi, con un ulteriore balzo in avanti dopo l’estate. Considerando che la crescita dei prezzi è stata contenuta da una serie di manovre messe in atto dal governo di Olaf Scholz, si capisce che l’economia tedesca ha la febbre alta. Non a caso, il Fondo monetario internazionale ha riveduto le stime per il 2023 e nel mirino, oltre all’Italia, c’è Berlino, che gli analisti del Fmi stimano in recessione con una contrazione del Pil superiore alla nostra, ovvero meno 0,3 per cento. A qualcuno il passo indietro del Prodotto interno lordo della Germania potrà sembrare poca cosa, ma se sommato a un’inflazione cresciuta rapidamente in pochi mesi, nei dati macroeconomici di quella che è sempre stata la locomotiva europea non si intravede niente di buono, per i tedeschi ma più in generale per l’Europa. Gli effetti che la guerra in Ucraina sta avendo sui Paesi della Ue e in particolare su quelli che costituiscono l’ossatura economica del Vecchio continente sono indubbiamente pesanti. A una situazione già provata dopo due anni di Covid, si è aggiunta una crisi energetica che minaccia di mettere in ginocchio interi Stati, con il risultato che l’Europa rischia di essere la vera vittima dello scontro in atto tra superpotenze per un riordino degli equilibri mondiali.
Sarà per questo che sulle pagine di molti giornali si è affacciata, come mai prima d’ora, la necessità di una tregua tra Mosca e Kiev? Fino a pochi mesi fa, il solo parlare di una trattativa fra Ucraina e Mosca era considerata più o meno una bestemmia e coloro che proponevano una soluzione negoziata, in realtà erano giudicati collaborazionisti con parecchie simpatie putiniane. Sì, dal termine di febbraio fino a ieri, qualsiasi ipotesi che non prevedesse il ritiro immediato delle truppe russe e un armistizio in cui Vladimir Putin riconoscesse le proprie colpe e restituisse tutti i territori occupati, Crimea compresa, era ritenuta una resa. Con tali argomentazioni, politici e giornalisti con l’elmetto hanno di fatto tappato la bocca a chiunque volesse ragionare sulle conseguenze e sulle prospettive della guerra. Non serviva il Mago Otelma per immaginare che di fronte alle sanzioni economiche e all’embargo deciso dai Paesi occidentali, lo zar del Cremlino avrebbe reagito chiudendo il rubinetto del gas da cui dipendono 450 milioni di europei. Tutti sapevano che il gas russo non era sostituibile dalla sera alla mattina e, per quanti sforzi si facessero, rinunciare alla dipendenza dal metano di Mosca avrebbe provocato un enorme problema per le imprese e le famiglie europee. Il 2 marzo Panorama, non il bollettino della Ue o di Palazzo Chigi, uscì in edicola con una copertina il cui titolo non lasciava adito a dubbi. Sotto a una lampadina da cui uscivano lingue di fuoco si poteva leggere: «Quanto ci costa la guerra (e che cosa rischiamo)». A riprendere in mano quel numero si ha la prova che era già tutto scritto. Tutto già previsto, comprese le ritorsioni sui nostri prodotti esportati in Russia ma, soprattutto, «i prezzi dell’energia fuori controllo e l’inflazione record per i consumatori». Cioè, governi e osservatori non potevano non sapere che la guerra l’avremmo pagata cara.
Il 13 aprile, meno di due mesi dopo l’invasione dell’Ucraina, sempre Panorama uscì con una nuova copertina dedicata alla guerra: «Il boomerang delle sanzioni», in cui si spiegava che gli effetti dei provvedimenti decisi dall’Occidente contro Mosca si ritorcevano contro di noi e «mentre l’Europa procede in ordine sparso, l’Italia paga un prezzo per decine di miliardi». Però, nonostante fosse tutto noto, giornalisti e politici scoprono ora che la libertà - dell’Ucraina - comincia a rivelarsi troppo salata per essere accettabile. Così, sulle pagine di alcuni quotidiani che fino a ieri erano guerrafondai e non ammettevano neppure il più piccolo tentennamento, all’improvviso è cominciata a suonare la ritirata. «Siamo tutti ucraini» ha scritto Massimo Giannini sulla Stampa «ma per la pace serve una via». Putin resta sempre il criminale che è, ma si invitano le cancellerie euro-atlantiche ad aprire un serio confronto con Zelensky per capire che fare. In altre parole, come uscirne. Ancor più chiaro Josh Hammer, editorialista di punta del settimanale americano Newsweek, il quale ha twittato: «Sono stanco di Volodymyr Zelensky» spiegando poi in un articolo che «il nostro interesse nazionale per il teatro ucraino non coincide con la posizione assolutista di Zelensky; il nostro interesse è per la de-escalation, la distensione e la pace». E Milena Gabanelli, una delle giornaliste più note del Corriere della Sera, sempre via Twitter, dopo l’attentato al ponte che collega la Russia alla Crimea, si è chiesta: «Ma qualcuno a Washington e a Bruxelles dice a Zelensky dove si deve fermare?».
Insomma, siamo tutti ucraini, ma fino a che la crisi non tocca il nostro portafogli e fino a quando Putin non minaccia l’uso di armi nucleari. In tal caso, senza preavviso, i nostri interessi non coincidono più con quelli di Kiev. Cioè, dopo migliaia di morti, centinaia di paesi spazzati via dai missili e miliardi di danni, all’improvviso anche i duri e puri della resistenza a ogni costo si rendono conto che questa guerra va fermata e la solidarietà a Zelensky va bene, ma fino a un certo punto. Con un ritardo di 240 giorni, anche i più convinti guerrafondai scoprono che serve una pace necessaria, cioè quello che da mesi pensa il 60 per cento degli italiani. Con le bollette alle stelle e la bomba alle porte, parlare di negoziato non è più una bestemmia.