TRIESTE Vietato quest’anno il tradizionale «ma chi lo conosce», come reazione all’annuncio del vincitore del premio Nobel per la letteratura. Specie da noi in Italia, dove Annie Ernaux, prima donna francese a vincere il premio, è molto nota e amata da quasi dieci anni, da quando nel 2014 la piccola casa editrice L’orma, con sede a Roma, pubblicò “Il posto”. Lorenzo Flabbi, editore e anche suo traduttore, ce la portò in Italia con la cura che merita una cosa preziosa, e ce la raccontò con una intelligenza e una devozione che l’aiutò a fare breccia immediatamente. Il Nobel a Ernaux è anche un premio a questa editoria elegante e appassionata, capace di scegliere scrittori e scrittrici non ancora noti e imporli all’attenzione. Non come un fenomeno transitorio, mediatico, casuale, ma come veri e importanti autori e autrici.
Ricordo bene quando ebbi in mano per la prima volta quel breve e magnifico romanzo. Prima ancora di leggerlo rimasi colpita dalla perfezione della confezione, la copertina, la carta, i caratteri. Già da allora Lorenzo Flabbi accompagnava personalmente la sua scrittrice in ogni viaggio italiano, traducendola, avendone un rispetto che non avevo mai conosciuto prima. Mi assicurò che non avrei trovato neanche un refuso nei loro libri, perché facevano diversi giri di bozze sull’impaginato. E aveva ragione. Rimanemmo tutti colpiti da “Il posto”, non sapevamo ancora niente di lei. Era il 2014, il romanzo era uscito in Francia quasi vent’anni prima, ma noi facemmo allora la conoscenza con quella scrittura che per semplicità definiamo autobiografica. Priva però sia di una confidenza diaristica che di quel noiosissimo baloccarsi sentimentale dell’io.
Ernaux scriveva di sé come non sapevamo si potesse, usando un linguaggio stringato e ferocissimo, intraprendendo a testa bassa un viaggio inarrestabile verso l’indicibile dell’umano, senza risparmiare nessuna fatica, nessun dolore. Un umano immerso in una dimensione sociale e politica che lo sovrasta, lo sbatacchia, lo costringe talvolta alla resa. Ne “Il posto” Ernaux racconta la storia del padre, della bottega di droghiere in Normandia, della provincia e della frattura che si crea tra lui e la figlia, che disperatamente studia, si emancipa, inizia a insegnare.
Una vicenda minuscola che contiene però tutta la rivincita del Dopoguerra in Europa, una generazione intera che si libera da una dimensione marginale e corre verso il centro. Facendo i conti con l’angoscia, il senso di colpa, l’amore e il disgusto per le proprie origini. Che ritroviamo ne “La vergogna”, uscito da noi nel 2018, sempre per L’orma e sempre nella traduzione di Lorenzo Flabbi.
Dove quella frattura si spalanca e il distacco dalla famiglia, per l’epifania di un gesto violento del padre, diventa insanabile. Si chiarisce l’impossibilità di questa giovane donna che stiamo imparando a conoscere di giustificare un mondo brutale e incolto, e di quanto questa ferita, nel non essere risarcibile, la determinerà. “Una donna” invece, uscito da noi lo stesso anno, è speculare: affronta quel passato dal punto di vista femminile, a partire della morte della madre, che era stata operaia e poi caparbiamente aveva acquisito insieme al marito la proprietà della drogheria che già conosciamo. Una storia, diremmo, di emancipazione, con tutta la ferocia che comporta.
Da questo io immerso in una comunità che si sta disintegrando, Ernaux passa senza difficoltà al “noi” de “Gli anni”, con il suo celebre incipit: «Tutte le immagini scompariranno. La donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè. Il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film “L’inverno ti farà tornare”. L’uomo incrociato su un marciapiede di Padova nell’estate del ’90, con delle manine attaccate alle spalle che subito facevano pensare alla talidomide prescritta trent’anni prima alle donne incinte contro le nausee...». “Gli anni” adesso è diventato un film, firmato dalla stessa scrittrice insieme al figlio David Ernaux-Briot, intitolato Les Années Super 8 e presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes. Un montaggio di sequenze tratte dai filmini di famiglia. Ernaux è una scrittrice molto amata dal cinema, in particolare “L’Evénement” (tratto dal libro omonimo, “L’evento”), con la regia di Audrey Diwan, ha vinto il Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia nel 2021. «Nell’ottobre del 1963, a Rouen, ho aspettato per più di una settimana che mi venisse il ciclo».
Con la sua solita precisione, secchezza e capacità di ferire e incidere anche senza aggettivi, la scrittrice racconta. Aveva ventitré anni e studiava all’Università. L’aborto era illegale in Francia come quasi ovunque. Ma soprattutto era una vergogna, di nuovo, l’emblema della miseria e del fallimento sociale. Una ragazza incinta era eccitante, perché testimoniava la sua disponibilità sessuale, ma indecente, come un alcolizzato. “L’evento” è un viaggio nel corpo, un rito di passaggio. «È come se questa donna che si dà da fare tra le mie gambe, che introduce lo speculum, mi stesse facendo nascere. Ho ucciso mia madre in me in quel momento».
Quando nel dormitorio il viaggio si conclude, Ernaux, guardando tra le sue gambe scrive: «Il corpo minuscolo, il testone, sotto le palpebre trasparenti gli occhi formano due macchioline azzurre. Sembra una bambola indiana». Ogni romanzo di Ernaux è di tale potenza che si imprime come un marchio sulla pelle. Sa parlare di centri commerciali cogliendone il lato più struggente, sa stare nella pelle di chi arranca, cogliendone non solo la rabbia ma anche la zoppìa, il vizio di origine che lo inchioda. Trasformare la propria vita in letteratura è di fatto il lavoro di ogni scrittore, ma Ernaux ha inventato una scrittura che, de-mitizzando il passato, ce lo consegna nella sua superba e mostruosa verità. —