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Il web è morto, almeno come lo conosciamo

Internet non è più la frontiera libera delle sue origini, ma vive in ostaggio delle grandi piattaforme, che rubano il tempo degli utenti e colonizzano le fonti d’informazione. Intanto, diventa realtà il metaverso, pronto a stravolgere, di nuovo, i connotati della rete.


Per dirla con Mark Twain, la notizia della sua morte è fortemente esagerata. Ed è anche storia vecchia, perché già nell’agosto del 2010 la rivista americana Wired ne celebrava in copertina il funerale: «The web is dead», il web è morto, era scritto in caratteri giganti, luttuosi e perciò neri, adagiati su un sanguinolento sfondo rosso. Eppure, la Rete non si è spenta e noi siamo sempre qui, ancora più connessi, accaniti navigatori dei sopravviventi oceani digitali. Oggi come ieri, c’è una parziale verità nel delitto, dentro questa estrema unzione di internet: non è più lo stesso, è cambiato e in parte è finito mutilato. I suoi attentatori sono i monopolisti dei suoi spazi. È stato un presidio per soffocamento, un assedio reiterato, consapevole, ben orchestrato: a raccontarlo e definirlo è il libro The power of platforms (Oxford University Press), il potere delle piattaforme, uscito lo scorso maggio.

Rasmus Kleis Nielsen, professore all’Università di Oxford, assieme a Sarah Anne Ganter dell’ateneo di Vancouver, indagano il dominio incontrastato di Google, Meta (la società dietro Facebook, Instagram, Messenger, WhatsApp) e degli altri giganti. Misurano la loro capacità di rubare il tempo online degli utenti, colonizzare i veicoli di diffusione delle notizie, essere contenitori e bussola delle opinioni. In definitiva, dare forma al pensiero della società.

Il web è morto, però non l’abbiamo ucciso. Piuttosto, è finito come terra di libertà, di esplorazione casuale, di gusto di perdersi nell’ignoto e verso l’inaspettato: è una gabbia, un treno che non deraglia quasi mai, una traiettoria poco incline alle derive, con confini ben definiti nel giogo di sovrani assoluti. Rasmus Kleis Nielsen è anche il direttore del Reuters institute for the study of journalism, lo storico centro di ricerca che registra lo stato di salute dell’informazione nel mondo. Per il 2022, nel rapporto aggiornato a giugno, rileva come nel Bel Paese le notizie online abbiano ormai superato la tv come fonte di scoperta di ciò che avviene sul pianeta e dietro casa, che i social network pesino da soli per il 47 per cento di questo flusso di fatti. Lo smartphone è il dispositivo principe di tale fruizione abbastanza imbrigliata: lo usa allo scopo il 69 per cento dei nostri connazionali, mentre il 36 per cento condivide notizie sui social, su un servizio di messaging o per e-mail.

In sintesi, non andiamo a cercare le notizie, ma ci inciampiamo sopra perché ce le invia un amico o, più spesso, le incontriamo mentre facciamo altro: guardiamo una storia o un video, curiosiamo nelle vite altrui, ci accingiamo a giocare a un gioco scemo. Vaghiamo poco tra i siti, perché trascorriamo le ore (quasi due al giorno, secondo un rapporto di We Are Social e Hootsuite) tra Instagram, Facebook ed epigoni, andando dove ci porta il feed, il flusso di contenuti che un algoritmo ritiene siano rilevanti per noi. tokenizzazione di internet», indicando l’allargamento, il contagio del modello TikTok, che tiene ancorati alla sua app con la sezione «Per te», un palinsesto a scorrimento di filmati che ci potrebbero interessare.

È qui che pure l’informazione, giocoforza, sta cercando di mettere radici, di trovare un lessico prima che una legittimazione: «Si rende parte di un’esperienza più vasta, deve fare la fatica di amalgamarsi a vari canali senza risultare fuori luogo. Ha la necessità di assumere il linguaggio della piattaforma in cui si sviluppa» ragiona Francesco Oggiano, autore del libro Sociability. Come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo (Piemme). Non è necessariamente un male, non significa che stiamo diventando più indifferenti all’attualità o ignoranti: «In passato» rileva Oggiano «chi non comprava il giornale era tagliato fuori dalle notizie. Oggi l’informazione è diffusa e progressiva, si ha la facoltà di decidere quanto approfondirla. Ma spesso è anche semplificata, rischia di sacrificare la complessità per adattarsi ai suoi nuovi approdi. Può essere polarizzata (si veda l’intervista a Federico Faggin in questa pagina, ndr), perché sui social si tende a estremizzare i toni per inseguire più salvataggi, condivisioni, mi piace». O proliferano le fake news che, specie in ambito scientifico, hanno conseguenze pratiche potenzialmente pericolose (si veda il box a p. 54).

Se il web è un multiverso di pochi luoghi ingombranti che lo compongono e forse lo risolvono, si appresta a resuscitare nella forma del metaverso, il prossimo spazio virtuale dell’interazione online, un grande social network che ricorda un videogioco, esplorabile in forma di avatar, gli equivalenti digitali di noi stessi: pupazzetti animati, l’evoluzione delle emoji a nostra immagine e somiglianza. Prepariamoci a camminare negli schermi di pc e telefonini o a vagare in un altrove di bit con un visore sul naso, per assicurarci un’esperienza più coinvolgente.

«Questo orizzonte potrebbe lasciare ancora meno spazio all’informazione. Il metaverso è un luogo pensato per l’azione, dove si fanno cose, in cui difficilmente ci si ferma a leggere contenuti» prevede Vincenzo Cosenza, tra i massimi esperti di internet in Italia e fondatore del progetto Osservatorio Metaverso. Paradossalmente, tale slancio in avanti potrebbe risolversi in un salto all’indietro: «Per essere rilevanti, gli approfondimenti dovranno essere reinventati. Avremo format inediti molto più vicini alle dinamiche televisive, in cui si combinano l’ascolto e il dibattito». Un po’ come assistere a una tribuna politica, però indossando un casco per la realtà virtuale.

Il metaverso piacerà alle nuove generazioni, che tradizionalmente scappano dalle arene intasate di adulti. Comunicano tra loro su Discord, usato da quasi il 10 per cento degli utenti web tricolore; si scambiano link nelle chat dei videogiochi o su Twitch, la piattaforma delle dirette in streaming dedicate a videogame e intrattenimento. Forse non sanno nemmeno cosa sia la barra dei preferiti del browser e altre liturgie routinarie della prima era della Rete.

La diversificazione, peraltro, non coincide necessariamente con un incremento, con un’espansione di certe abitudini: la ricerca «EY Decoding the digital home study», presentata poche settimane fa, condotta su 2.500 famiglie tricolore e oltre 20 mila a livello globale, mette il Bel Paese al primo posto tra quelli tendenti al «downsizing». Il 41 per cento degli utenti italiani prevede di ridurre il tempo trascorso on line, mentre la media internazionale si ferma al 33 per cento. Il web non sarà morto, ma così com’è ha un po’ stufato.

I social network scavano divisioni


Nel suo nuovo libro irriducibile, il fisico Federico Faggin, l’inventore del microprocessore, critica le «piazze virtuali» che isolano le persone e propone limiti precisi all’uso dei nostri dati.

di Marco Morello

I social network, programmati per bombardare le persone con messaggi suggestivi spesso basati su informazioni false o su teorie cospiratorie, generano gruppi che vivono alienati dalla realtà in mondi isolati». A scriverlo nel suo libro è il fisico Federico Faggin, tra i più brillanti cervelli italiani. È l’inventore del microprocessore, il pioniere del touchscreen, premiato nel 2010 con la medaglia per la tecnologia e l’innovazione dall’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Il saggio s’intitola Irriducibile (Mondadori, pp. 300, 22 euro) sottotitolo: «La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura». Le pagine esortano a trovare e affermare il proprio libero arbitrio guardandosi dentro, sganciandosi dallo strapotere delle macchine, prive del privilegio della consapevolezza, della capacità della riflessione. Però, in grado comunque d’instupidirci, allontanarci, persino schiacciarci.

Faggin, siamo impigliati nella Rete?

Siamo portati a cercare significati fuori di noi, nelle piazze digitali che fomentano la superficialità, moltiplicano i centri ideologici, generano isole non comunicanti tra loro. Scavano divisioni più profonde di quelle che, in passato, dipendevano dalle distanze geografiche.

Intravede una via d’uscita?

I governi dovrebbero impedire la gratuità di tali servizi e imporre limiti ben precisi su come e quanto possano guadagnare dai dati degli utenti. Le informazioni in possesso dei social network hanno un valore enorme, ma contaminano la purezza delle intenzioni di chi frequenta questi luoghi. L’orizzonte è il metaverso. Un ulteriore distacco da sé, un passo in più verso l’alienazione. Un mondo simulato per sostituire quello reale che non ci soddisfa, dove ci verranno chiesti soldi veri in cambio di prodotti virtuali.

Nel suo libro, come antidoto, cita un altro fisico inventore, Nikola Tesla: «Il progresso deve servire per migliorare il genere umano, se non è così è solo una perversione».

Rischiamo che le bombe atomiche, un giorno o l’altro, vengano sganciate, che le macchine siano usate contro di noi da chi le controlla. Non è l’algoritmo a prendere l’ultima decisione, perché a un certo punto si ferma, non sa, né tantomeno capisce cosa fare. Chiede al padrone, a chi lo manovra.

Lei sostiene che i robot non saranno mai consapevoli perché hanno il buio dentro.

Sono interruttori, sequenze di «on» e «off». Restano per definizione limitati, come lo è il linguaggio. Come si può esprimere l’amore per un figlio o spiegare il sapore della cioccolata a chi non l’ha mai assaggiata? Non basterebbe un’enciclopedia. Per questo esistono la poesia e l’arte, che generano una capacità di comprensione più profonda. Noi, solo noi, l’afferriamo perché siamo coscienti. È la tesi centrale di Irriducibile. Sensazioni e sentimenti sono qualitativamente diversi. puramente quantistico, che non è clonabile, né intellegibile da fuori, lo è solo dal suo interno. Da chi lo vive. Ognuno ha dentro di sé la sua unicità. La privacy della nostra informazione più intima esclude chiunque altro.

Dunque?

È questa straordinarietà a darci soddisfazione, a farci sentire parte del tutto. Non certo quante moltiplicazioni il nostro cervello può fare al secondo o quanta memoria riesce a conservare. Se invece ci rassegniamo a una realtà materialista, è ovvio che le macchine saranno più potenti di noi.

Com’è arrivato a queste conclusioni?

Come moltissime persone, cercavo le risposte fuori di me. Era quello che il mondo suggeriva, ci sono caduto. Poi mi sono guardato dentro, ho capito che c’era di meglio. Di più. Mi sono avvicinato ai valori che definiscono la nostra umanità.

Oggi può dirsi felice?

Sono presente a quello che faccio in ogni momento, mentre prima la mia mente voleva essere dove non ero, era travolta da un senso d’ansia e irrequietezza. So che sto portando un contributo a me stesso e agli altri ed è il massimo che posso fare. Provo il senso di essere allineato con chi sono.

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