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Se lo Zar trasforma in realtà la minaccia atomica

Se lo Zar trasforma in realtà la minaccia atomica

Attaccando Crimea e Donbass ora l’Occidente rischia che Mosca sganci la Bomba. Putin ci tiene a sottolineare che non è un bluff: come fece Kennedy con Kruscev

E adesso? Adesso dopo il discorso di Putin? Il tempo trattiene il fiato. Pare che null’altro, avanzate controffensive vittoriose missili a pioggia riti sempre più scaduti dell’Onu, getti un’ombra sotto quella trasparente e irreale della Grande Minaccia. È come se una enorme cometa medioevale stesse insieme con il sole nel cielo luminoso di autunno. Tutto potrebbe disgregarsi. E tutto è possibile. Una inesplicabile pazzia addenta il cervello della povera umanità. Eppure da duecento giorni è l’eterna scena della umanità che si prolunga: gli sgherri della forza, la vittima e il solito terzo, noi, lo spettatore che difende la vittima fino a un certo punto, fa il conto dei danni di quell’aiuto e spera, senza dirlo, che la realtà lo cavi dai guai così, per miracolo.

Il discorso di Putin dà il nome alle cose, disocculta il non detto: la Bomba non è più silenzio, una disgrazia di cui è meglio tacere, una insoluta possibilità che appartiene alle ipotesi possibili. Lo stesso Putin, lo sconfitto, l’umiliato, il deriso per la sua potenza di cartapesta e il suo esercito di generali imbelli e soldati predoni, corrode dall’interno esplicitamente i nostri tenaci luoghi comuni. Produce senso, guardate che non sto bluffando. Con l’avvio della mobilitazione generale dei russi e la clausola atomica che scatterebbe al momento in cui gli ucraini, come annunciano e ripetono con l’orgoglio di chi in questo momento avanza, metteranno piede in Russia, che non è più la annessa Crimea ma anche il Donbass. Siamo entrati tutti, anche noi europei, i sostenitori dell’Ucraina, negli eventi possibili, la guerra atomica, a cui non si aveva, finora, il coraggio di dare parola e storia.

Già li sento, i sicuri di sé, gli analisti infallibili della vittoria strasicura, li sento aggrapparsi al fuscello: ma via! È la mossa disperata di un cadavere vivente, il blaterale al vuoto di uno sconfitto. Non oserebbe, non oserà! Già: ma siete sicuri di avere il coraggio di andare a vedere il colore della sua Carta?

Lo sconfitto Putin rovescia il senso della guerra che ha criminalmente voluto, ora non parliamo più dello stesso oggetto. L’assurdità di una guerra atomica che si fa possibile determina una condotta paradossale. Essa consiste nel persuadere l’avversario che si ha la volontà di preferire il nulla all’essere e di far saltare in aria il pianeta mediante un suicidio collettivo. La oscillazione tra il nulla e l’essere, tra la morte e la sopravvivenza, tra il suicidio e la vita non è più affare degli ucraini sventurati e dei russi. Diventa di ognuno di noi. La Storia forse ieri è finita come è finita la preistoria, forse siamo entrati nella post Storia di cui è arduo e forse inutile prevedere la lunghezza e gli esiti.

Allora militarmente parlando. Gli ucraini e i loro alleati, gli Stati Uniti, devono porsi la domanda finora rinviata accuratamente: se avanziamo nel Donbass e cerchiamo di sbarcare in Crimea che cosa succederà? Chi avrà il coraggio di superare la linea tracciata su questa prepotenza nel 2014 e ieri sapendo che la deterrenza non è più deterrenza ma un’arma normale, utilizzabile, possibile? Finora nel giudicare questa guerra gli elementi erano semplici a meno che non si fosse partigiani o in malafede: la giustizia delle vittime, gli ucraini, il torto dell’aggressore, la Russia. Putin che non riusciva a vincere doveva complicare il quadro, drammatizzarlo fino a sconvolgerlo. Deve imporre la domanda che non è più possiamo vincere e punire l’aggressore, ora è: possiamo sopravvivere alla vittoria? O meglio esisterà ancora qualcosa che assomigli alla vittoria, dopo?

C’è un leader che ha già dovuto affrontare questa domanda tremenda attraversando la valle scura della prima Guerra fredda, Kruscev per la crisi di Cuba. Sapeva che se avesse tentato di portare a fondo la sua sfida Kennedy avrebbe usato la Bomba, lo disse: non bluffo. Tornò indietro. Ma allora il vertice del regime sovietico, una dittatura come quella putiniana ma meno primitiva, era di tipo collegiale, falchi e colombe si scontrarono e prevalse la ragione. Le navi russe con i missili tornarono indietro.

Oggi l’autocrazia putiniana non è di tipo collegiale, è personale, shakespiriana nella sua solitudine. Dopo che è scoppiata la guerra abbiamo volontariamente rinunciato a cercare di capire cosa succedeva a Mosca, abbiamo fatto scendere il buio: è il regno del Male assoluto, la Gorgone che non bisogna guardare, solo distruggerla. In fondo che sappiamo di Putin, di perché ha agito a febbraio, di quali erano, fin dall’inizio i sui obiettivi, di come li ha adattati alle nostre reazioni e agli imprevisti che ogni guerra crea nel suo cammino?

Ora con la minaccia atomica esplicita, verrebbe da dire fatta legge (se attacchi il mio territorio rispondo con l’atomica) lo scopo principale, forse, è raggiunto: la frattura con l’Occidente è definitiva, irrimediabile, i russi di qua e gli altri, l’Occidente di là, con le atomiche puntate. Nessun contatto è più possibile. Il vero pericolo per il potere putiniano, camuffato e giustificato da una immaginaria Santa Russia assediata dal male e dal peccato occidentale, erano i contatti tra le persone con le frontiere aperte, le commistioni, i confronti, le tentazioni che avrebbero morso con il sommarsi delle generazioni le basi della sua società autoritaria, intaccato gli scenari immobili della vita post sovietica. Ora il pericolo è annullato. Cala il silenzio. Putin aveva bisogno dell’odio che è un acido che intacca l’anima, indifferente se uno odia o è odiato.

L’annuncio della mobilitazione di un primo enorme scaglione di civili è l’altro elemento di questa strategia. Finora si poteva dubitare della guerra, considerarla un errore politico di un capo che finora aveva sempre vinto tutte le scommesse basate sulla forza, si poteva dissentire sottovoce, nei casi più coraggiosi dare voce al no. Ora non è più possibile: il rifiuto diventa crimine, diserzione, tradimento. I russi che dovranno presentarsi ai distretti per essere riaddestrati e equipaggiati entrano nel cerchio della guerra, devono ricominciare da capo, imparare il mondo. È quanto è accaduto nell’agosto del 1914 quando gli europei si trovarono a un tratto forzati a una fatica di odio, schiacciati dalla presenza continua della morte, dalla presenza di una forza che rendeva la loro vita non necessaria. È accaduto agli ucraini. Ora accadrà ai russi.

Ogni tentazione capitolarda è inaccettabile. Ma i leader occidentali e gli ucraini devono rispondere alla domanda: che fare?

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