Dilagano gli scontri dopo l’uccisione della 22enne da parte della polizia morale perché indossava male il velo
Quattro giorni di disordini e cinque morti. C’è anche una bambina di 10 anni, gravemente ferita negli scontri, che lotta tra la vita e la morte nella città di Bukan. La sua foto è diventata virale. La protesta per la morte di Mahsa Amini dilaga, per quanto può dilagare in un Paese sotto una stretta dittatura teocratica. Le immagini che arrivano da Teheran e da altre grandi città del Paese mostrano donne che saltano sui tetti delle auto, sventolano il velo, bruciano l’odiato jihad, il simbolo della sudditanza alla legge islamica e agli uomini che hanno imposto l’obbligo del velo dopo la rivoluzione islamica del 1979. La polizia ha aperto il fuoco ad alzo zero su tutti: uomini, donne e bambini.
Mahsa Amini, 22 anni, era stata arrestata martedì della settimana scorsa dalla «polizia morale» perché non indossava il velo secondo i dettami della legge islamica. È morta dopo tre giorni di coma, per le botte degli agenti. Le autorità negano, è stato un «attacco di cuore» dicono. Ma la menzogna questa volta non ha retto, la situazione pare scappata di mano. Ci sono momenti nella storia dove una ciocca di capelli può fare la differenza. In Turchia, nella piazza Maidan di Istanbul, fu il taglio di alcuni alberi in un giardinetto spelacchiato a dare il via alla grande rivolta contro il regime di Erdogan. Le primavere arabe che portarono alle rivolte in Medio Oriente partirono dal gesto di un uomo che si dette fuoco, per denunciare i maltrattamenti delle forze di polizia. In Iran, la morte di Mahsa sta infiammando il Paese e in special modo la regione del Kurdistan nel nord ovest, dove era originaria la ragazza.
Nell’oscuramento mediatico del regime trapelano notizie dai canali social degli attivisti e in particolare la ong curda Hengaw Organization for Human Right, con sede in Norvegia. Sarebbero almeno 75 le persone rimaste ferite negli scontri con le forze di sicurezza e altre 250 sono state arrestate. Il governatore del Kurdistan ha ammesso che ci sono stati 3 morti e sulla vicenda è intervenuta l’Onu, che ha denunciato «la violenta repressione» contro i manifestanti.
L’Alto Commissario Nada Al-Nashif ha espresso preoccupazione per la morte di Mahsa: «La tragica morte della giovane e le accuse di tortura e maltrattamenti devono essere indagate in modo rapido, imparziale ed efficace da un’autorità indipendente, assicurando che la sua famiglia abbia accesso alla giustizia». Secondo la portavoce dell’Ufficio dell’Alto Commissario Onu, in diverse città del Paese, compresa Teheran, la polizia ha «sparato munizioni vere» e usato gas lacrimogeni.
Ora a essere nell’occhio del ciclone è la polizia morale, con le sue pattuglie, dette «pattuglie della morte», che girano per le strade in cerca di «criminali», ovvero donne che infrangono la legge religiosa. La polizia morale, tra le altre cose, ha il compito di garantire che le donne si conformino all’interpretazione della autorità sull’abbigliamento «corretto». Quindi le pattuglie hanno il potere di fermare le donne e valutare se stanno mostrando troppi capelli, se i loro pantaloni e le tuniche sono troppo corti o attillati, oppure se si truccano troppo. Chi viola le regole può incorrere in una multa, può essere arrestato ed è prevista anche la fustigazione.
I racconti delle attiviste che da anni si ribellano a queste regole e rivendicano la libertà di uscire per strada senza dover occultare il proprio corpo, parlano di violenze di ogni tipo. Sono state arrestate in migliaia, sbattute in carcere, stuprate e maltrattate. Qualche volta le cose finiscono peggio, come nel caso di Masha. Ci sono testimonianze che parlano di manganellate in testa. È stata arrestata mentre era in strada a Teheran con il fratello. L’hanno presa gli agenti per la moralità e l’hanno portata in un centro cosiddetto di «rieducazione», un luogo dove vengono portate le donne con lo scopo di ricevere una giusta guida e l’educazione su come abbigliarsi in strada.
Nel 2014, le donne iraniane hanno iniziato a condividere foto e video di se stesse che violavano pubblicamente le leggi sull’hijab nell’ambito di una campagna di protesta online chiamata «My Stealthy Freedom». La prima a condividere il suo «momento di libertà segreto» online è stata Masih Alinejad, rifugiata negli Usa, minacciata di morte e braccata dagli sgherri del regime che la vogliono «fare a pezzi» (testuale). Aveva postato sui social la foto di una donna che guida su una strada di montagna, godendosi la semplice libertà di sentire il vento tra i capelli (poi divenuto anche il titolo del suo libro). Da allora la protesta di Masih ha ispirato altri movimenti, tra cui «White Wednesdays» e «Girls of Revolution Street».
Queste donne hanno lottato con gli strumenti a disposizione, nella maggior parte dei casi niente più di un telefonino e una connessione internet. Nei giorni scorsi si sono tagliate ciocche di capelli a suon di forbici e hanno postato i video sui social. Si sono tolte il velo e lo hanno bruciato pubblicamente. Da quanto si vede nei pochi video che bucano la rete e la censura, lo stanno facendo ancora.
Le centinaia di manifestanti scesi in strada sanno che rischiano la vita, ma protestano per chiedere l’abolizione della polizia morale e anche alcuni parlamentari hanno criticato l’istituzione, sollecitandone la revisione o addirittura l’abolizione. Addirittura, il presidente del Parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf ha chiesto che la condotta di questa unità di polizia sia oggetto di una inchiesta: «I metodi utilizzati da queste pattuglie dovrebbero essere rivisti», ha detto e il Guardian riporta che il capo della polizia morale di Teheran, il colonnello Ahmed Mirzaei, sarebbe stato sollevato dall’incarico dopo le proteste. Le autorità iraniane negano.
Che una ciocca di capelli questa volta sia il motore di un cambiamento? Non è mai detto. Tra l’altro mentre la vicenda sta scuotendo l’opinione pubblica internazionale, il presidente iraniano Ebrahim Raisi si trova a New York per rivolgersi per la prima volta all’assemblea generale dell’Onu. Nel posto sbagliato al momento sbagliato. O forse nel posto giusto al momento giusto, visto che gruppi di manifestanti per i diritti umani a New York stanno protestando contro la sua presenza e avviano azioni legali contro l’Iran.
«Quante altre persone in Iran dovranno morire prima che il mondo si svegli?» twittano i manifestanti diffondendo il video di una donna a terra, colpita dalla polizia. «Loro hanno pistole e proiettili, ma noi abbiamo l’un l’altro, siamo più forti delle loro armi».