TRIESTE. La mattina del 3 maggio 1938 l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, con le massime autorità dello Stato, attende alla stazione Ostiense l’arrivo di Adolf Hitler per accompagnarlo ad ammirare alcune tra le migliori collezioni del patrimonio artistico italiano. Sa che nell’incontro con Mussolini parlerà di guerra, e vorrebbe poterla evitare, magari attentando alla vita di entrambi: ma il prezzo sarebbe stato la perdita della sua, decisamente troppo alto per il suo antifascismo «generico». Il 10 giugno 1940 Mussolini dal balcone di piazza Venezia tiene il famoso discorso con cui apre le ostilità contro Francia ed Inghilterra. Tra queste due date si dispiega il romanzo di Antonio Scurati, “M. Gli ultimi giorni dell’Europa” (Bompiani, pp. 432), terzo volume della saga dedicata a Mussolini. Scurati sarà fra i protagonisti dell’ultima giornata di Pordenonelegge, domenica, quando alle 19 presenterà il suo libro assieme ad Antonio Franchini, allo Spazio San Giorgio.
Come è noto, all’arrivo del Führer a Roma si era già risolta la conquista italiana dell’Etiopia, nonché l’annessione alla Germania dell’Austria. Hitler l’anno dopo invaderà anche la Cecoslovacchia, che le potenze europee, riunitesi alla Conferenza di Monaco, decisero poi di non difendere per salvaguardare la pace. Per le insistenze di Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri, l’Italia occuperà invece l’Albania. L’atmosfera internazionale è ovviamente tesa, come ben documenta Scurati che, da romanziere, imposta la sua indagine storica soprattutto sulla psicologia e i caratteri dei due protagonisti del dramma, inveterati narcisi che, per motivi squisitamente personali, stanno disinvoltamente portando alla distruzione d’Europa. Intanto, i due cercano di soggiogarsi vicendevolmente: da parte fascista si cerca d’abbagliare l’ospite, sterminatore spietato ma sensibile al bello, con parate e feste spettacolari in luoghi paesaggistici ed artistici suggestivi, mondanamente impreziositi dalla presenza di nobili d’antico lignaggio e di dame fascinose; da parte nazista invece si cerca di intimidire gli italiani con l’ospitalità essenziale esibita da gerarchi dallo sguardo di ghiaccio che obbligano a non interrompere i lunghi e decisivi monologhi di Hitler. Che infatti, senza chiedere il consenso all’alleato, firmatario con lui del Patto d’Acciaio, il 1° settembre 1939 invade anche la Polonia, d’accordo con la Russia. È la guerra. Mussolini rimane spiazzato dal cinismo del Führer, che non ha tenuto conto non solo del saldo anticomunismo fascista, ma neppure della sua esigenza, più volte dichiarata, di dover attendere qualche anno prima di impegnarsi in un conflitto, causa l’inadeguatezza delle forze armate e dei relativi sistemi logistici italiani. Il Duce capisce di avere perso autorevolezza e, per non dichiarare una disdicevole “neutralità”, sceglie di proclamare intanto un’ambigua “non belligeranza”. Ma deve giocare su più tavoli, appoggiando Hitler senza allarmare i due premier avversari, Chamberlain e Daladier, che fino a poche ore prima del discorso di piazza Venezia non conoscevano, almeno ufficialmente, la sua intenzione. Dal 1° settembre 1939 al 10 giugno 1940 la narrazione segue dunque il rincorrersi degli incontri italo-tedeschi, documentati da verbali istituzionali ma anche da diari e lettere, che svelano le ragioni soprattutto private delle strategie adottate. Emerge così tutta l’indifferenza con cui il potere politico, attento a salvare sé stesso, si muove senza preoccuparsi di un’opinione pubblica che sa incapace di opporsi. Prima di mandare al macello i suoi «combattenti di terra, di mare e dell’aria», Mussolini, con la stessa noncuranza, aveva promulgato infatti le leggi razziali: Renzo Ravenna storico podestà ferrarese, alpino nella Grande Guerra, fascista della prima ora, amico personale di Italo Balbo, scopriva così, con sconcerto crescente, attraverso un susseguirsi di comunicati volutamente subdoli e sfuggenti, che il suo passato nulla contava di fronte alla sua appartenenza alla “razza” ebraica. Margherita Sarfatti, musa dell’arte novecentesca, amante e sostenitrice politica di Mussolini, ma ebrea, a sua volta doveva mettere di mezzo l’Atlantico per salvare sé stessa e il proprio patrimonio. L’editore modenese Angelo Fortunato Fomìggini invece aveva preferito suicidarsi, a scopo dimostrativo, ma invano, perché il suo gesto era stato fatto passare sotto silenzio.
Il Duce, incallito doppiogiochista si compiace della propria “furbizia”, e mentre tergiversa con l’alleato, disprezza chi sostiene le ragioni della pace, propensione femminea che scopre radicata in buona parte del popolo italiano: e freme per non essere riuscito a farlo diventare “maschio”, secondo i principi di un’etica fascista, che inclina invece verso azioni di riscatto e di vendetta. Mentre si affaccia su una piazza Venezia gremita, sa bene di andare contro il comune sentire, ma s’impone di farlo innanzitutto per rinvigorire il suo declinante prestigio. Perché sono state proprio le prime ingannevoli vittorie “lampo” dei nazisti, foriere secondo lui di un rapido e vantaggioso epilogo della guerra, ad indurlo ad accondiscendere alle pressioni di Hitler.
Senza pensare che, sui campi delle Ardenne, i soldati si ritrovavano a combattere come se la storia fosse destinata inesorabilmente a ripetersi: testimoni attoniti di «un libro già scritto» ascoltavano quelle antiche voci di caduti che ancora mormoravano «nel brusio di una ennesima, feroce, mattina del mondo».