«Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli uomini e quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo. Diceva mio padre». Autrice della caustica considerazione su una delle ideologie del Novecento che ha incendiato moltitudini di animi, contrapposti tra anticomunisti, e coloro i quali avevano abbracciato la causa, è Oriana Fallaci. Giornalista e scrittrice, nata a Firenze il 29 giugno del 1929, luogo nel quale terminò l’arco dell’esistenza il 15 settembre 2006.
Dunque, tra qualche giorno ricorrerà la ricorrenza del 19esimo anno della morte della scrittrice che – per dirla con le parole di un celebre conterraneo dalla Fallaci, considerato un maestro: Curzio Malaparte – è stata una giornalista rientrata a pieno titolo tra i “maledetti toscani”. Intendendo per essi individui, appartenenti alla tradizione di quella zona, celebri per essere dotati di mordente ironia, quando necessario sboccata e di viva intelligenza. Caratteristiche, che contribuiscono ad alimentare quella innata insofferenza nei confronti dell’autorità e del potere in genere. Peculiarità, che certo non facevano difetto alla giornalista.
LEGGI ANCHE
In sovrappiù, la Fallaci per tutta la vita, fin dalla prima giovinezza, sfoderò un coraggio e una determinazione nell’affermare le proprie convinzioni assolutamente ragguardevoli. Ancora ragazzina, promossa sul campo “staffetta partigiana”, nella formazione di Giustizia e Libertà, nella quale militava anche il padre. Nel cestino, coperte dall’insalata, portava munizioni per i partigiani. Alla fine delle ostilità, quei temerari comportamenti, gli valsero un riconoscimento d’onore dall’Esercito italiano. Dopo un fugace passaggio prima alla Facoltà di Medicina e poi a quella di Lettere, abbracciò la professione di giornalista.
Una scelta inizialmente dettata dalla necessità di sbarcare il lunario. Il desiderio vero, sarebbe stato quello di fare la scrittrice. Cosa, che in qualche misura, tramite il giornalismo, riuscì a concretizzare. Ad esempio quando nel 1956, dopo essersi trasferita a New York, per scandagliarne e farne reportage di umori, vita dei divi e dei costumi di quella fascia di privilegiati, per la Longanesi pubblicò I sette peccati di Hollywood. La prefazione fu di Orson Welles e l’autrice aveva 27 anni. Le collaborazioni rilevanti che segneranno la sua carriera furono con i periodici Epoca e l’Europeo, rivista quest’ultima con la quale collaborò fino al 1977.
Fase nella quale, alla giornalista erano affidate Cronache sull’Alta moda italiana o, una volta trasferitasi a Roma, su quello spumeggiante fenomeno che fu la “Dolce vita”. Ma la tempra. Il carattere volitivo della Fallaci. Nonché l’ariosa sensibilità della sua penna, erano certamente più adeguati a scenari estremi. Convulsi. Quali i conflitti. Riuscì così a ritagliarsi il delicatissimo ruolo di inviato speciale di guerra. Fu la prima giornalista italiana a ottenere questo genere d’incarico. «Nella mia vita Sai Gon è affondata come un coltello». Gli echi di un conflitto, che inizialmente, con superficialità nell’Occidente europeo fu considerato remoto e alla fine dei conti ininfluente, vide una convinta Fallaci recarsi in Vietnam: luogo dello stato di belligeranza in essere.
L’inviata dell’Europeo, in sette anni andò in Vietnam ben dodici volte, per cercare di capire e divulgare le ragioni dei sudvietnamiti e quelle dei vietcong. Questa ricerca di comprensione dei perché di una situazione che definirà «una sanguinosa follia», tentò di ottenerla tramite le interviste che raccoglieva sul campo. Attività, che svolgeva con una tale maestria, dal riuscire in quell’incandescente contesto, a effettuare un memorabile scoop intervistando, cosa ritenuta impossibile, il Generale Giap, comandante delle forze armate Nord Vietnamite. Il Generale, rispetto ai contenuti effettivi della intervista rilasciata, ebbe dei ripensamenti. Un incaricato, si presentò alla giornalista, un paio di giorni dopo, con dei fogli nei quali era scritto ciò che poteva essere pubblicato. Fogli pieni solo di retorica. Per nulla intimidita, la giornalista pubblicò l’intervista originale per intero.
«L’indipendenza di giudizio, come si sa, è una virtù che a molti comunisti non piace». Nei fatti, e così commentando, scavalcò a piè pari l’indebita ingerenza. Dalla esperienza di guerra maturò il libro Niente e cosi sia. Ma lo sprone, quasi bulimico, a cercare di comprendere il proprio tempo con tutte le mille sfaccettature che offriva non poteva certo rimanere confinata in quelle temperie. Tanto è vero, che nel 1965, alla vigilia di una delle svolte più significative nella storia dell’umanità, ovvero lo sbarco della missione statunitense sulla Luna, intervistò Werner Von Braun. Scienziato tedesco responsabile del progetto.
La stessa persona, che poco più di vent’anni prima, creava i missili V2. Armi tra le più sofisticate a disposizione della Germania durante il secondo conflitto mondiale. Non poteva perdere il ribollire delle tragiche contraddizioni che stavano attraversando gli Stati Uniti della fine degli anni ’60. Dalle contestazioni giovanili connesse fortemente con il conflitto del Vietnam, agli omicidi di Martin Luther King, e quello di Bob Kennedy. Vicende fortemente drammatiche, che rientravano comunque in leggibili schemi di lotte per il potere. Verso la fine degli anni “70, il mondo Occidentale si trovò completamente spiazzato, per la rivoluzione khomeinista in Iran, che costò il trono allo Scià di Persia Reza Pahlavi.
La reporter, grazie alle sue coriacee capacità umane e professionali, riuscì per conto del Corriere della Sera a ottenere dal leader della teocratica Repubblica islamica dell’Iran un’intervista. Prima e unica, che l’ayatollah abbia concesso a una giornalista. Il tutto avvenne seguendo modalità rigorosamente stabilite dai collaboratori dell’intervistato. L’atmosfera, che venne a determinarsi, oscillò tra le montagne russe della diffidenza e dell’incomprensione. Mostranti squarci di reciproca, malcelata ostilità. Sentimento che emerse in maniera netta quando l’intervistato diede una risposta nei fatti corposamente provocatoria.
Khomeini, sugli argomenti delle libertà concesse alle donne, a cominciare dall’abbigliamento consentito, era stato messo all’angolo dalla “toscanaccia”. Spazientito, cercando di trovare una via d’uscita intercalò: «Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene». La tensione, salì al calor bianco. Per nulla intimidita la intervistatrice reagì prontamente: «Molto gentile. E, visto che mi dice così, mi tolgo subito questo stupido cencio da medioevo». Quello con l’Ayatollah, fu il primo confronto della Fallaci con l’Islam.
Religione intimamente connessa, per valori e principi con l’Ordinamento dello Stato. Cosa fondante della Repubblica islamica dell’Iran. Quell’esperienza, fu da stimolo profondo di analisi e riflessioni. Condotte, con acume non addomesticato da comodi conformismi. Al termine di questo percorso intellettuale, forgiò la parola Eurabia. Ossia il tentativo da parte del mondo arabo di annettersi il mondo Occidentale. Per lei, i termini di confronto tra Europa e mondo islamico, non poteva essere che quello di una contrapposizione frontale. Come alcune evidenze storiche sembravano suggerirle.
In una celebre intervista affermò: «È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci. Annientarci. Distruggerci». Dalla sua casa di New York, assistette alla tragedia dell’undici settembre, lasciandocene testimonianza agghiacciante: «Hanno continuato a buttarsi finché, una verso le dieci, una verso le dieci e mezzo, le Torri sono crollate». Prese di posizione, fortemente discordanti, dal nascente sistema di pensiero unico. Donna caparbia, coraggiosa costantemente, alla ricerca della verità. Tratti che le impedivano di essere faziosa.
Tanto da poterle permettere, lei staffetta partigiana, il lusso di poter dire: «L’assassinio di Gentile fu una canagliata ingiusta e vigliacca». Consapevole oramai che i giorni a disposizione, erano diventati pochi, decise di andarli a consumare nella sua Firenze, tra le brezze della Civiltà degli Uffizi, Ponte Vecchio, il Maggio musicale. Lasciando sventolare ancora una volta il vessillo della sua vita: «Vi sono dei momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo».
L'articolo Sedici anni senza Oriana Fallaci: penna anticonformista che ha raccontato e anticipato la storia sembra essere il primo su Secolo d'Italia.