TRIESTE Con i suoi ventisette anni è il più giovane dei cinque finalisti del premio Campiello e qualcuno dice che potrebbe addirittura fare il colpaccio. La faina protagonista de ‘I miei stupidi intenti’ (Sellerio, 243 pagg., 16 euro), l’animale che parla in prima persona, prova emozioni umane e pensa a dio e alla morte, un personaggio che sembra uscito da un cartoon di Walt Disney immerso in una dimensione tragica, ha fatto di Bernardo Zannoni un absolute beginner. Il suo primo libro lo ha scaraventato in un lampo dalla tribuna dove guardava gli altri giocare alla Champions League. Sarà per questo che intervistarlo è un percorso irto di ostacoli? Non risponde ai messaggi, poi dà appuntamenti telefonici che vanno a buca e quando pensi di averlo acchiappato dice che è appena sceso dal treno e deve correre a casa a riposarsi. Che il sapore del successo gli abbia dato alla testa? Ma no, quando finalmente lo raggiungi lui si scusa e con la concitazione che arriva dal vortice della giovinezza ammette «sono un po’ svalvolato, non riesco mai a finire le cose. Anche questo libro, non lo avrei mai concluso senza mio padre».
In che senso?
«Avevo cominciato a scrivere le prime pagine sei anni fa, mio padre le aveva lette e gli erano piaciute. Poi ho lasciato stare e mi sono messo a fare un documentario e altre cose».
Quali?
«Mi sono cimentato in tutto, scrivo testi, ho sceneggiato cortometraggi che poi ho girato io stesso e ci ho aggiunto la musica che compongo. La scrittura è la forma più antica di espressione, l’ho frequentata fin da quando ero bambino, ma poi ho scoperto che mi piaceva anche scrivere canzoni e fare documentari».
Alla fine questo libro l’ha finito.
«Mio padre mi ha spronato a riprendere la storia, ha continuato a rompermi le scatole per un anno e così, per sfinimento, perché non ne potevo più di sentirlo, ho concluso il libro. Senza mio padre non sarebbe mai esistito».
Ed è stato selezionato per un premio prestigioso come il Campiello.
«Essere nella cinquina dei finalisti mi ha lasciato abbastanza sgomento, non avviene mai con l’opera prima. Giocarmela con i grandi mi ha dato un’enorme soddisfazione e un senso di non appartenenza. Ho pensato: io con questi cosa c’entro?».
Questo è il suo primo libro?
«È il primo dei miei lavori che viene pubblicato, ma scrivo da quando ero bambino. Il mio intento era di buttare giù sogni e idee che mi ispiravano e mi consolavano. Ho scritto tante altre cose perché, come dicevo prima, non riuscivo mai a finirle, ogni cosa che cominciavo veniva soppiantata da qualche altra. Ero famoso per non finire le cose».
Il libro racconta la vicenda di una faina che, come gli altri animali della storia, si trova davanti alle grandi domande che si fanno gli uomini.
«Ho cominciato a scriverlo per gioco, non volevo farlo leggere a nessuno. Non pensavo di toccare temi come la religione, la morte, dio; sono partito senza sapere dove andavo. Man mano che il personaggio acquisiva spessore, l’ho seguito come un sasso giù per la collina, per forza di gravità».
Come mai ha scelto gli animali come protagonisti?
«Perché hanno una flessibilità narrativa che gli uomini non hanno».
I loro rapporti sono spietati. La madre del protagonista, Archie, lo vende in cambio di qualche gallina.
«Oltre il mondo per come lo vediamo c’è l’universo dominato dalle leggi della matematica e della fisica e da quella più antica e cruda che è la violenza. Gli animali seguono il loro flusso, siamo noi che ci siamo fermati a guardare e a cercare di dominare la natura».
Perché ha scelto la faina?
«All’inizio volevo scrivere di una volpe, ma in seguito ho cambiato idea, ho pensato che la volpe è un soggetto troppo usato. Così ho scelto la faina, che invece è un personaggio bianco, senza storia, che pochi conoscono e che è raro vedere perché si muove di notte. L’ho adottata per la libertà di inventarla come volevo».