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Un’associazione gestisce la tratta degli indiani in perfetto stile mafioso: a Padova la base operativa. I luoghi, i nomi, il business

PADOVA. È un’organizzazione criminale «al limite del cosiddetto metodo mafioso» - sono parole del Gip Domenica Gambardella - quella che da almeno dieci anni gestisce l’arrivo di lavoratori indiani da impiegare nei magazzini della logistica per conto della grande distribuzione, ma anche in aziende metalmeccaniche.

Un’associazione a delinquere con estensioni nel centro Italia e in qualche caso anche più a sud, fino alla Puglia, ma con quartier generale radicato a Padova, dove risiede il suo capo, Tara Chand Tawar, conosciuto da tutti come Taru, indiano di 62 anni, entrato regolarmente in Italia nel 1994, dal 2005 residente a Campodarsego.

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È lui il destinatario della misura cautelare, disposta dal Tribunale di Padova lo scorso 3 agosto, che dispone a suo carico il divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali per un anno oltre che il sequestro preventivo di diciotto immobili, non tutti intestati a lui, e numerosi conti correnti per un totale di 750 mila euro. L’ipotesi di reato è quella del 603 bis: intermediazione illecita e sfruttamento dei lavoratori.

Gli indagati, compreso Taru, sono sette ma l’ordinanza del Gip Gambardella - 126 pagine che contengono intercettazioni, analisi dei conti correnti e ampie deposizioni di vittime e persone informate sui fatti - fa intendere che la rete che gestisce la tratta di questi nuovi schiavi sarebbe molto più estesa. E che avrebbe trovato porte aperte e occhi distratti in diverse aziende, pronte ad approfittare dei vantaggi garantiti da Taru, cioè una manodopera a basso costo, ricattabile, disposta o più spesso costretta a lavorare anche sedici ore al giorno, senza diritti e senza pretese.

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«È un’organizzazione di tipo piramidale», scrive il Gip, «opera dal territorio padovano, ha natura transnazionale, è composta da un numero non definito di appartenenti tra i quali, oltre a Tanwar, ci sono altri cinque suoi connazionali» ed è «connotata da un permanente vincolo associativo finalizzato alla commissione di una serie indeterminata di reati».

DAL BISOGNO ALLA SCHIAVITU’

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Sono otto gli schiavi di Taru classificati come persone offese a cui si fa riferimento negli atti. Ma ovviamente sono molti di più - si suppone diverse centinaia - gli indiani “importati” dall’organizzazione.

Scrive il Gip: «Le condotte sono ancora in corso per quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche e ambientali disposte. Si tratta di un sistema di reclutamento a tutto tondo, mediante approfittamento, caratterizzato dalla violenza e dalla minaccia, descritto solo da due categorie di persone: quelle estranee all'organizzazione che, lavorando all'interno delle cooperative, hanno visto e ascoltato e riferito agli inquirenti; le persone offese che si sono affrancate dal sistema grazie all'uscita di scena dai luoghi di lavoro delle coop che si avvalgono del contributo di Tanwar per reclutare la manodopera, organizzarla e sfruttarla».

Inizialmente il reclutamento avveniva nella regione indiana del Punjab: i lavoratori, accomunati dal cognome Singh, venivano messi a disposizione dalla cooperativa Transporter.

Una seconda stagione parte nel 2016 con l’avvento della Sky Coop, società con sede a Schio il cui presidente è l’unico italiano fra gli indagati, Vito Marrocco, residente a Mestrino. È lui a mettere a disposizione la società per assumere il personale indiano che comincia ad arrivare dal Rajasthan (i cognomi a quel punto sono Mali e Saini).

Il reclutamento, guidato a distanza da Taru, avviene tra persone in stato di bisogno alle quali si chiedono somme fino a 18 mila euro - da pagare in parte subito e in parte a rate una volta ottenuto il lavoro - per essere portate in Italia con la garanzia di un permesso di soggiorno, un letto e un posto di lavoro.

LA BASE A PADOVA

Taru pensa a tutto: fa i biglietti aerei, “vende” i permessi di soggiorno («C’è un prezzario», si legge nell’ordinanza), sistema i lavoratori in condizioni disumane in appartamenti e case che acquista continuamente e per le quali fa pagare agli indiani tariffe da 300 a 380 euro mensili, posto letto e cibo scarso.

La prima tappa, per chiunque arrivi, è quasi sempre Padova. Un appartamento all’Arcella, il via Altichieri da Zevio, funge da base. Poi i lavoratori vengono smistati in base alla destinazione: Mestrino, Campodarsego, Cadoneghe, Belfiore (Vr), Alessandria, Sansepolcro, Perugia. Destinazioni non casuali - attenzione - e che infatti accendono importanti segnali luminosi in direzione delle italianissime aziende, o cooperative, che impiegheranno la manodopera, nella logistica ma non solo.

VIDEO. LAVORIAMO 12 ORE AL GIORNO

Padova la testimonianza: "Lavoriamo per 12 ore al giorno, siamo sfruttati"foto da Quotidiani localiQuotidiani locali

"Ho 45 anni e sono in Italia da 17 anni. Per venire in Italia dall'India ho pagato 16 mila euro per arrivare e lavorare nel settore metalmeccanico in provincia di Padova. Lavoriamo anche 12 ore al giorno e gli straordinari non sempre vengono pagati. Abbiamo paura che protestando facciano male alle nostre famiglie in India". Ecco la testimonianza di un lavoratore sfruttato che vive e lavora nel Padovano.

TARU TIENE TUTTI IN PUGNO

Il sistema è blindato: Taru non permette a nessuno di uscire e si avvale dei suoi aiutanti per bloccare sul nascere ogni protesta. Perciò minaccia o ricorre a violenza fisica, tiene lontani i sindacati e “invita” i lavoratori a non iscriversi. Sotto minaccia sono anche i parenti in India. L’ordinanza documenta decine di storie tutte simili di ricatti, vessazioni, maltrattamenti. E di affari che intanto si gonfiano, per Taru e per i suoi. Mentre gli schiavi capiscono presto di essere finiti in trappola. 

Leggi anche. Non solo caporalato: l'ampia zona grigia dello sfruttamento lavorativo

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IL BUSINESS DEGLI ALLOGGI

Nicola PIRAN - CADONI - FOTOPIRAN - MESTRINO - ABITAZIONE SOTTO SEQUESTRO VIA TOSCANINI

Il lavoro, prima di tutto. Ma è anche dal settore immobiliare che l’organizzazione di Tara Chand Tanwar fa affari con i lavoratori indiani. Ognuno di loro paga dai 300 euro in su, ogni mese, per un posto letto e un po’ di cibo.

Taru accumula appartamenti, li compra a suo nome o stacca gli assegni e li intesta a suoi connazionali, a volte ignari del fatto. Le indagini coordinate dal sostituto procuratore Roberto Piccione e affidate al nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Padova individuano 18 immobili ora posti sotto sequestro, tutti riconducibili all’organizzazione. Ma dagli atti emergono anche altri alloggi, forse presi in affitto, dove gli indiani vengono ospitati in condizioni disumane.

Nel complesso ce ne sono tre a Padova (via Altichieri da Zevio, via Wagner e via Pontevigodarzere), quattro a Mestrino (via Toscanini, via Firenze, via Mazzini, via Aquileia), uno a Cadoneghe (via Bragni), uno a Carmignano di Brenta (via Ronchi), uno a Campodarsego (via Antoniana). E poi altri a Belfiore, Pojana Maggiore, Dueville, Sandrigo, Alessandria, Colognola ai Colli, Perugia, Parma, San Giorgio Bigarello.

L’ordinanza raccoglie le testimonianze degli indiani che vivono in cinque per stanza, in venti per ogni casa, con un solo bagno disponibile, costretti a lavarsi nel luogo di lavoro, a dormire in letti matrimoniali con sconosciuti.

A volte gli alloggi non sono neanche arredati o sono uffici in cui si dorme per terra. Il cibo fornito da Taru, che porta la spesa un paio di volte al mese, è sempre scarso e gli immigrati devono spendere i loro pochi soldi per acquistarne altro e non morire di fame. 

***

TARU, IL CAPO VENERATO COME UN RE

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Gennaio 2004, centinaia di stranieri in fila davanti all’ufficio immigrazione di Padova per aggiudicarsi uno dei pochi posti disponibili con le quote per la regolarizzazione. Il primo della fila è un uomo che arriva dall’India, precisamente da Jaipur, nel Rajasthan.

Si chiama Tara Chand Tanwar, lo chiamano tutti Taru. Dice di essere lì da una settimana: «Ci diamo il cambio io e i miei familiari in auto», racconta.

«Vivo in Italia da dieci anni, ne ho 35 (in realtà ne aveva 44 e oggi ne ha 62, ndr) ma per uscire dall’India ne ho dichiarato di più. È la quarta volta che provo a mettermi in regola, spero di farcela».

Ce la farà. Nel 2005 prenderà casa a Campodarsego. E intanto avrà già iniziato a seguire il suo fiuto per gli affari. Prima apre un ristorante in via Aspetti all’Arcella - lo chiama Jaipur Samrat - poi fonda l’associazione Jayhind che, parole sue, si occupa di lavoro, casa, permessi di soggiorno per gli indiani.

Oggi, stando all’ordinanza del Gip Domenica Gambardella, Taru è pienamente dentro quel business, essendo colui che «promuove, organizza e dirige un’associazione (criminale, ndr) all’interno della quale riveste un ruolo apicale assumendo i lavoratori e affidandoli ai controllori-caporali».

Taru recluta indiani disperati nel loro Paese, li porta in Italia facendosi pagare migliaia di euro e impone loro - segnala il Gip - «condizioni non negoziabili di lavoro e di vita, pena la perdita del lavoro e dell’alloggio e l'impossibilità di trovarne altri in sostituzione», utilizzando, per raggiungere l’obiettivo, «minacce fisiche anche ai familiari in India».

Chi tenta di uscire da sistema o di iscriversi al sindacato, è subito rimesso in riga, anche con la violenza. Più spesso, prima dei pugni, arrivano le minacce di licenziamento (e un lavoratore che diventa delegato sindacale descrive come ha perso il posto, con un pretesto infondato) oppure pressioni sui parenti in India. Racconta un immigrato indiano che quando ha annunciato l’intenzione di lasciare l’alloggio fornito da Taru, l’organizzazione ha minacciato di rapire sua madre, una vedova anziana.

Ma il caso più emblematico di come funziona l’organizzazione è quello del 2018 quando il fratello di uno dei lavoratori indiani arrivati in Italia viene quasi ucciso per vendetta da una banda di sicari. Il mandante del tentato omicidio, secondo le deposizioni raccolte dalla polizia indiana, è Taru che viene arrestato e poi rilasciato su cauzione. Il processo per quell’episodio deve ancora svolgersi.

Ma Taru non è uno che va per il sottile. Segue in prima persona tutta la “filiera”, ma - annota il Gip - «può contare su un vasto numero di persone pronte a eseguire i suoi ordini».

Quando gli operai di una delle sue cooperative scioperano per aver perso il contratto a tempo indeterminato, lui procura altra forza lavoro: la carica sul van Mercedes nero e la porta direttamente in magazzino, imponendo ai nuovi arrivati orari da 16 ore al giorno per compensare l’assenza degli scioperanti. Al fisco ogni anno dichiara redditi modesti, quasi poveri. Infatti l’ordinanza del Tribunale che ora dovrebbe bloccare per un anno ogni sua attività imprenditoriale segnala somme di denaro movimentate incompatibili con le dichiarazioni dei redditi. C’è una sproporzione di almeno un milione e 16 mila euro. E ci sono almeno 53 conti correnti riconducibili a lui. Che infatti in India, dicono tutti, ha una villa da maragià. E in Italia case e villette che non si sa neppure quante sono. —

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