TRIESTE. Una famiglia di Domio, due genitori anziani e una figlia, legati al loro piccolo appezzamento di terra che coltivano con amore. Scopriamo le piccole interazioni quotidiane tra loro nella casa piena di oggetti e di foto ricordo di una vita, nei rituali della campagna: tutto sembra tranquillo, ma non lo è. Perché questa famiglia, Duilio, Maria Albina e Giuliana Rasman, ogni giorno deve sopravvivere al dolore di aver perso il figlio e fratello Riccardo Rasman, ucciso nel 2006 dalla polizia nel suo appartamento a Trieste.
A riaccendere le luci sul suo caso, e raccontare l’incrollabile ricerca di giustizia della famiglia di fronte a questa tragedia inaccettabile, è ora il documentario “Un nemico invisibile” di Federico Savonitto, già regista del film “In un futuro aprile” sul giovane Pasolini, e Riccardo Campagna, che vedremo l’8 settembre alle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia.
Riccardo aveva una disabilità mentale: i suoi problemi sono iniziati dopo aver subito episodi di nonnismo durante la leva militare. La sera del 27 ottobre 2006 la polizia interviene nella sua abitazione perché i vicini segnalano che, in stato di agitazione, sta lanciando petardi dal balcone.
Nel tentativo di arrestarlo, i poliziotti gli comprimono il petto a terra fino a provocargli un'asfissia. Tre agenti vengono condannati per omicidio colposo, in una vicenda che ricorda quelle più celebri di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi ma, sottolinea Savonitto, «è rimasta più ai margini della cronaca. È il primo caso in cui una famiglia è riuscita ad avere ragione sulla polizia, però è stato riconosciuto solo il danno a Riccardo, non anche quello subito dai suoi famigliari: per questo loro continuano a lottare».
Il film è autoprodotto da Takaità Film, la società di Savonitto: «È un film molto delicato, ma ero sicuro del risultato. È stato coraggioso confrontarsi con le istituzioni, siamo stati sostenuti anche dal Fondo Audiovisivo Fvg e dalla Fvg Film Commission. Lo Scrittoio lo distribuirà nei cinema».
Avete scelto di allontanarvi dal film giudiziario o di denuncia per fare invece il ritratto umano di una famiglia che cerca un senso alla tragedia, un colpevole anche oltre quelli acclarati dalla giustizia…
«Quando ci siamo avvicinati ai Rasman - risponde Savnitto - ci siamo accorti di quanto la loro battaglia mostri bene cosa succede quando il sistema non viene incontro a una famiglia che ha subito delle ingiustizie, provocando anche un senso di isolamento e una condizione di fragilità. Li abbiamo seguiti per quattro anni, senza dare giudizi».
Per questo è un documentario senza contraddittorio.
«Sì, lasciamo sottotraccia il caso giudiziario: il percorso narrativo segue la sorella di Riccardo, Giuliana, la nostra Antigone che cerca la giustizia oltre quella terrena e istituzionale, quasi una giustizia divina. Ci teniamo che il film riconosca la loro sofferenza».
Giuliana è convinta che l’omicidio di Riccardo abbia un mandante legato a Gladio, per interessi edilizi sulla loro proprietà.
«Nel film ci sono la sua conversazione con un giornalista triestino e poi con il magistrato Felice Casson: Giuliana non rimane a casa a fare delle congetture, ma incontra la realtà. Volevamo mostrare come il mondo reagisce alle sue idee».
Il film ci porta nell’intimità dei Rasman, nella loro casa, nei vecchi filmini di famiglia. Come siete stati accolti?
«Con grande apertura. La difficoltà è stata spiegare loro che tipo di documentario avevamo in mente: all’inizio ci parlavano come se dovessimo girare un servizio televisivo. Invece siamo riusciti a far capire che ci interessava il loro quotidiano e abbiamo stabilito una relazione basata sulla fiducia».
Un tema importante del film è il rapporto dei Rasman con la terra.
«Un legame forte, perché sentono di averla faticosamente conquistata. I Rasman sono di origine istriana, sono arrivati a Trieste e hanno cercato letteralmente di trapiantarsi. Questa terra che coltivano è un simbolo importante perché avrebbe dovuto coltivarla il grande assente del film, Riccardo. Raccontiamo la Trieste delle sopraelevate, della Ferriera, delle grandi opere perché è il mondo dei Rasman ma anche per descrivere la loro condizione: sono sovrastati dalla grandezza di meccanismi più grandi di loro».
La famiglia ha visto il film?
«Maria Albina e Giuliana l’hanno visto con noi proprio qualche giorno fa. Duilio purtroppo è mancato l’anno scorso, quando è stato male siamo corsi a Trieste per stare vicino alla famiglia. Abbiamo rivisto il film con loro tra pianti ma anche grandi risate. Si sono riconosciuti nel modo in cui li abbiamo descritti, per noi è stata la soddisfazione più grande».
La vicenda di Rasman assomiglia anche a quella di George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis.
«Quando è morto Floyd eravamo nel pieno delle riprese, perché abbiamo iniziato a girare nel 2018. Ci ha colpito per l’assonanza: nel nostro film si muove in sordina anche il discorso del razzismo. Avevamo sentito per esempio che Riccardo era stato nominato “quel s’ciavo” con un certo disprezzo da uno dei poliziotti. Ma approfondire questo tema nel film avrebbe aperto una parentesi troppo grande. Il film vive nell’attualità, nel presente, perché racconta proprio le ultime battaglie dei Rasman. Che continuano a non arrendersi».