È l’8 agosto di 66 anni fa, quando alle le 8,10 del mattino, nella miniera di carbone di Marcinelle, in Belgio, una gabbia parte dal punto d’invio 975 del pozzo d’estrazione con un vagoncino male agganciato. È l’inizio della tragedia che verrà ricordata per sempre come il disastro di Marcinelle: 262 minatori morti sui 274 presenti.
A pagare il prezzo più alto è l’Italia: 136 minatori morti sono italiani (nella foto i funerali). Assieme a loro, in fondo alla miniera di Marcinelle, moriranno 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 5 francesi, 3 ungheresi, un inglese, un olandese, un russo e un ucraino.
Il primo giorno i soccorsi riusciranno a estrarre soltanto 13 superstiti.
L’attesa interminabile dei familiari scandita dalle richieste di avere notizie sui propri cari seppelliti nel buco di Marcinelle ha fine il 22 agosto 1956. Quando i soccorritori pronunciano le fatidiche parole che nessuno voleva sentirsi dire: “Tutti cadaveri“.
Ma perché quegli italiani si trovano li a Marcinelle? Finita la guerra in Europa c’è, dappertutto, la necessità di far ripartire l’economia. E, nella prospettiva di una ricostruzione industriale il governo belga lancia la ‘battaglia del carbone‘.
Le autorità belghe vorrebbero evitare di ricorrere alla manodopera straniera ma, ben presto, realizzano che l’obiettivo non potrà mai essere raggiunto contando unicamente sulla manodopera belga.
E, così, si fa largo l’idea di ricorrere all’immigrazione massiccia degli stranieri. L’Europa dell’Est e, più in particolare, la Polonia non sembra più una potenziale riserva di manodopera.
Il Belgio decide così di rivolgersi all’Italia, agli operosi italiani che non si tirano indietro di fronte a nulla.
Il protocollo di intesa italo-belga del 23 giugno 1946 prevede l’invio di 50.000 lavoratori italiani in cambio della fornitura annuale di un quantitativo di carbone, a prezzo preferenziale, compreso tra due e tre milioni di tonnellate.
Per convincere gli uomini a lavorare nelle miniere belghe, si affiggono in tutta Italia manifesti che presentano unicamente gli aspetti allettanti di questo lavoro (salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato), mettendo in secondo piano, quasi nascondendo la realtà, le durissime condizioni di vita e di lavoro nelle miniere belghe e a Marcinelle in particolare.
All’arrivo a Bruxelles, gli italiani – ma anche gli altri stranieri che si erano candidati a lavorare in Belgio – vengono smistati verso le differenti miniere, dopodiché i lavoratori vengono accompagnati nei loro ‘alloggi‘, le famose ‘cantines‘: sono terribili baracche gelide d’inverno e roventi d’estate. Sono situate proprio nei campi di concentramento dove, pochi anni prima, il Belgio aveva sistemato i prigionieri di guerra.
Così facendo il Belgio viola i patti previsti dall’accordo italo-belga. E, inoltre, la mancanza di alloggi convenienti, impedisce alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia.
Trovare un alloggio in affitto in Belgio è, infatti, quasi impossibile all’epoca. Senza contare le discriminazioni. Spesso sulle porte delle case da affittare, i proprietari scrivono a chiare lettere ‘ni animaux, ni etranger‘ (né animali, né stranieri).
Un’integrazione difficile, dunque, a cui si sommano le condizioni di lavoro particolarmente dure e insalubri, oltre alle scarse misure di igiene e sicurezza.
Il risultato è che tra il 1946 e il 1955, quasi 500 operai italiani trovano così la morte nelle miniere belghe, senza contare il lento flagello delle malattie d’origine professionale. La più pericolosa di queste è la silicosi, causata dalle polveri della miniera che, depositandosi nei polmoni, crea insufficienze respiratorie.
L'articolo Marcinelle, 66 anni fa la tragedia dei 167 minatori italiani emigrati. Così il Belgio lì tradì sembra essere il primo su Secolo d'Italia.