Intorno al furgoncino scoperto di colore bianco, fermo in mezzo alla strada, una distesa di pomodori. Verdure e piselli sul retro servivano come camuffamento di un lanciarazzi multiplo utilizzato dallo Stato islamico in Afghanistan per colpire il vicino Uzbekistan. La prima volta in aprile, l’ultima il 5 luglio scorso, con i razzi che sono arrivati a Termez. Altri sono stati lanciati negli ultimi mesi sul confinante Tagikistan, sempre dallo Stato islamico con l’obiettivo di esportare la guerra santa nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
I miliziani del Califfo sono nemici giurati dei talebani ritenuti troppo moderati. Emomali Rahmon, presidente tagiko, ha dichiarato il 21 luglio che la disastrosa situazione in Afghanistan «potrebbe portare a cambiamenti geopolitici in tutto il continente eurasiatico». Un anno dopo la Caporetto della Nato, il caos talebano regna a Kabul e nelle varie province, fra lotte interne più o meno sotterranee, diritti delle donne formalmente promessi ma di fatto negati, popolazione allo stremo e Al Qaida che oramai è alla luce del sole.
«L’Afghanistan non solo sta ridiventando una culla del terrore, ma anche del narcotraffico. Dimenticare questo Paese è eticamente vergognoso. Basta vedere come trattiamo i profughi ucraini, che non sono dipesi da noi e quelli afghani creati da noi» afferma Stefano Pontecorvo, ex rappresentante della Nato a Kabul. La nazione oggi guidata dai talebani è un buco nero della comunità internazionale. E i numeri che provengono da lì fanno spavento: secondo il Programma alimentare mondiale, 22,8 milioni di afghani, la metà della popolazione, sopravvive grazie agli aiuti internazionali. I 2,7 milioni di rifugiati all’estero sono la terza nazionalità al mondo dopo siriani e venezuelani, ma si calcola che altri 3,5 milioni di persone siano diventate «sfollati interni». L’economia è a rotoli con un’inflazione dei prezzi degli alimenti schizzata al 23,2 per cento negli ultimi mesi.
I nuovi governanti sono profondamente divisi, a tal punto che le scorte dei leader delle varie fazioni vengono disarmate nei ministeri dei rivali. Lo scontro più acceso riguarda il clan Haqqani, forte nell’Est del Paese, in rotta di collisione con il nocciolo storico dei talebani che risiede a Kandahar. Il capo supremo degli studenti guerrieri, Hibatullah Akhundzada, ha emesso un editto che impone il burqa e nega una piena istruzione alle donne. Agli inizi di maggio, Anas Haqqani, annunciava a Khost, una delle roccaforti del clan famoso negli anni per la rete di terroristi suicidi, che «le ragazze torneranno presto a scuola e tutti saranno felici. Le donne hanno un ruolo nella fondazione dell’Emirato». Mai accaduto, ma Anas è il fratello minore del potente Sirajuddin, capo della rete Haqqani e ministro dell’Interno ricercato dall’Fbi come terrorista con una taglia di 10 milioni di dollari. Anche il vice ministro degli Esteri afghano, Sher Mohammad Abbas Stanikzai, ha criticato il leader supremo: «Dobbiamo conquistare i cuori e le menti della nostra gente, non governarla con il bastone».
I talebani, a stragrande maggioranza pashtun, sono divisi lungo linee etniche e religiose. In giugno la fazione hazara del movimento estremista guidata da Mehdi Mujahid si è scontrata con quella pashtun sul controllo di alcune miniere di carbone. Il 17 luglio si è impennata la tensione fra l’Emirato islamico ed i salafiti dopo l’assassinio del loro leader Sardar Wali. Cinque giorni dopo sono scoppiati violenti scontri fra le fazioni talebane o con militanti dell’Isis negli uffici provinciali e il quartier generale della polizia nella provincia di Baghlan. Lo stesso Stato islamico accusa i talebani che, nonostante la messa al bando ufficiale dell’oppio, la droga circoli liberamente molto più di prima. Alcune foto mostrano sacchi di oppio al mercato di Farah, una provincia dell’ovest che era sotto controllo italiano, tranquillamente venduti dai contadini ai contrabbandieri che porteranno la droga in Iran.
«I talebani non solo sono divisi, fra giovani e anziani. Si sparano addosso. L’Occidente pensa di convincerli con i soldi, ma non funziona perché sanno che comunque continueremo a fornire aiuti umanitari alla popolazione. Il problema è che vogliono costruire una società a loro immagine e somiglianza, soprattutto pashtun» spiega Pontecorvo, autore tra l’altro de L’ultimo aereo da Kabul sulla drammatica evacuazione del 2021. Il caos si riflette anche nella ambasciate afghane all’estero, dove nessun Paese ha riconosciuto ufficialmente il nuovo Emirato islamico.
Il 27 maggio l’ufficio dell’addetto militare afghano a Roma, fieramente anti talebano, è stato chiuso. Dal 29 aprile ai primi di luglio, l’ambasciatore, Khaled A. Zekriya, è volato negli Stati Uniti per stare vicino alla famiglia. In sua assenza la conduzione della rappresentanza diplomatica è diventata a dir poco confusa. Nel ginepraio afghano è spuntato pure Antonio Capuano, l’avvocato che ha cercato di organizzare il viaggio di Matteo Salvini in Russia e ha un contratto con l’ambasciata. Il 18 luglio la rappresentanza diplomatica ha comunicato che «in nessun caso difenderemo o rappresenteremo i talebani né alcun altro gruppo in Afghanistan, tranne i valori e i principi della Repubblica islamica» soppressa con la forza delle armi lo scorso 15 agosto.
L’Onu ha poi rivelato, il 19 luglio, che Ayman al Zawahiri, erede di Osama Bin Laden al timone di al Qaida, dato per morto, in realtà «è vivo e comunica liberamente». Il fondato sospetto è che l’ex medico egiziano abbia trovato comodo riparo proprio in Afghanistan. I talebani considerano Al Qaida una valida alleata. L’Isis Khorasan (Isis-K), da parte sua, continua ad alzare la testa non solo grazie ai citati lanci di razzi negli Stati confinanti, ma con imboscate ai talebani e colpi a effetto nel cuore della capitale, come l’attacco al tempio Sikh dopo l’apertura dell’ambasciata indiana.
L’intelligence americana è sempre convinta che l’Isis-K e Al Qaida pianifichino attacchi contro gli Usa. Il generale Kenneth F. McKenzie Jr., capo del comando centrale, però, ha dovuto ammettere che la capacità di monitoraggio sull’Afghanistan è crollata «all’1- 2 per cento». A dare una mano ci pensano gli israeliani. I talebani hanno siglato un accordo con la Gaac corporation, società degli Emirati arabi, per mandare avanti gli aeroporti nazionali. Gli arabi si appoggiano a esperti dell’Ar challenges, società israeliana specializzata nella sicurezza degli scali.
In tutto questo, la spina nel fianco dei talebani è rappresentato dal Fronte di resistenza nazionale guidato da Ahmed Shah Massoud, figlio di uno degli eroi afghani. «I pachistani stanno a guardare e l’appoggio è garantito dal Tagikistan, ma non basta» osserva Pontecorvo. Lo stillicidio di attacchi e imboscate nella zona del Panjshir ha ferito a morte Qari Bilal, nipote del mullah Yaqoob, esponente di spicco dei talebani. Massoud dichiara di contare su tremila uomini, soprattutto tagiki, e il suo responsabile per le Relazioni internazionali, Ali Maisam Nazary, è arrivato agli inizi di luglio a Roma per incontrare esponenti politici, compresa Giorgia Meloni. I talebani sospettano che la resistenza sia appoggiata segretamente da Stati Uniti e Russia. Il Cremlino, però, continua a mantenere buoni rapporti con Kabul e ha appena riconosciuto come «incaricato d’affari», Jamal Nasir Garwal, inviato talebano a Mosca. (ha collaborato Matteo Carnieletto)