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David Clementoni: «Con Italian Artisan portiamo il made in Italy nel mondo»

«Da family business a business family». David Clementoni aveva le idee chiare quando nel 2015 ha deciso di lasciare l’azienda di famiglia per creare un network che riunisse gli artigiani manifatturieri italiani legati al settore moda. Con 700 imprese all’attivo, ovvero circa l’1% del totale delle realtà presenti sul territorio (40% calzature, 25% abbigliamento, 35% borse e piccola pelletteria), e oltre 10.000 utenti iscritti alla piattaforma, tra stylist, brand e retailer, Italian Artisan è oggi la più grande community digitale per il settore.

Italian Artisan dà oggi lavoro a 23 persone, per l’85% donne, con un’età media intorno ai 26 anni, e punta a 375 milioni di Gmv nel 2028. Panorama.it ha parlato con David Clementoni di questo ambizioso progetto.

David Clementoni

Ci puoi raccontare la tua storia prima di Italian Artisan?

Per raccontare la mia storia devo partire dalle mie origini. Ho radici artigiane sia da parte di mia madre che di mio padre. I primi sono sarti da un secolo e vestono gli uomini più eleganti al mondo, che arrivano a Recanati per far confezionare i loro abiti dalla sartoria Latini. Mio nonno invece, insieme alla famiglia, ha sviluppato l’azienda artigianale Clementoni trasformandola in un’industria dal respiro internazionale. Sono sempre cresciuto in questo gusto del saper fare, del bello, ma anche con una profonda conoscenza del processo di creazione di un prodotto. Insomma, la mia educazione mi ha portato a non fermarmi mai alla semplice estetica, ma ad analizzare quello che c’è dietro. Dopo diverse esperienze all’estero, l’ultima a New York, mi sono soffermato sul mio territorio, le Marche, e lì ho avuto modo di entrare in contatto con varie realtà e capire le loro problematiche produttive e/o organizzative. Da lì, ho iniziato a creare Italian Artisan.

Il progetto è nato nel 2015 ma si è evoluto fino a diventare un portale B2B. Quali sono gli step che hanno portato Italian Artisan a quello che è oggi?

La mia prima visione è stata quella di dare le stesse capacità della grande azienda alle piccole e micro imprese, offrendo loro un’apertura sui mercati internazionali, semplificata grazie al digitale. Nel 2015, dopo essere uscito dall’azienda familiare con l’intenzione di lanciare questo progetto, ho iniziato a offrire consulenze alle realtà del terziario. Ci è voluto del tempo per far comprendere questa nuova visione e solo nel 2019 ho iniziato a creare la piattaforma Italian Artisan.

È stato difficile avvicinare queste aziende a progetto totalmente digitale?

Assolutamente. Non si è neanche trattato di far comprendere questo mondo, ma proprio di introdurre le aziende a un mondo che non riuscivano neanche a vedere perché assolutamente lontano dalla “stretta di mano” cui erano sempre stati abituati. Con Italian Artisan abbiamo mostrato quanto possa essere semplice cogliere queste nuove opportunità. Si è trattato di far comprendere questo nuovo cambiamento, uno dei tanti che magari un imprenditore oggi 80enne si è trovato ad affrontare nel corso della sua carriera. Oggi posso dire - con 700 aziende sul nostro portale - che abbiamo portato un nuovo mindset.

Come funziona la piattaforma?

Abbiamo due processi, dipendentemente dalla necessità dei nostri clienti. Il primo vede la creazione di una collezione o di una produzione a partire dal design o dal disegno tecnico. Ad esempio, sei un brand internazionale con i tuoi disegni e noi ti aiutiamo a sviluppare la produzione attraverso la nostra piattaforma custom. Carichi il tuo progetto, l’algoritmo seleziona le realtà, che sia più tecnologica o più heritage, che potrebbero interessarti e gli artigiani fanno le loro offerte. Dall’altra c’è la possibilità di selezionare direttamente da un catalogo di proposte dei produttori. Italian Artisan non è solo una piattaforma di “match making” perché portiamo i nostri clienti al successo della collaborazione.

Quali sono i vostri mercati di riferimento?
Principalmente il mercato anglosassone. Australia, America - Centrale e del Nord - ma serviamo anche tutta l’Europa e il Canada.

Ci sono delle complessità nell’avvicinare le aziende a realtà internazionali e quindi culturalmente diverse?

Inizialmente sì. Tornando a parlare dell’accordo con “stretta di mano”, si può capire come questo approccio appaia completamente alieno a molte realtà. Anche perché faccia a faccia è più facile trovare un modo per capirsi. Con il digitale in mezzo, ci vuole molta più fiducia, anche solo per la barriera linguistica. All’inizio della creazione della piattaforma Italian Artisan avevamo anche pensato di implementare un traduttore.

Come hai affrontato la pandemia?

È stata sicuramente un acceleratore di alcuni processi, specialmente un acceleratore di mentalità. Molte aziende si sono avvicinate a noi spontaneamente, o anche grazie al passaparola, e lo hanno fatto con un approccio molto diverso rispetto agli anni precedenti. C’era una nuova speranza, un nuovo desiderio di avere qualcuno al proprio fianco, un partner o comunque una guida con esperienza.

Cosa significa per te e per Italian Artisan il termine “made in Italy”?

Quando viaggiavo all’estero nessuno mi riconosceva come italiano, forse per la mia fisionomia. Poi mi accorgevo che c’era una grande percezione dell’Italia, non per gli italiani in sé, quelli del Duemila, ma per gli italiani che sono stati. Quelli che si facevano gli abiti dai sarti, quelli che hanno creato l’Italia investendo a livello locale, nei distretti, collaborando. Tutto con una cultura del saper fare molto spiccata. L’Italia nasce da artigiani che hanno imparato a fare sinergia e lavorare insieme. È questo il Paese che ho visto, e mi ha fatto comprendere quanto questo valore sia importante e quanto sia intrinseco nel concetto di “made in Italy”. Non era solo il prodotto, ma tutto quello che il prodotto può trasmettere. Cultura, tradizione, gusto estetico, qualità, savoir faire. Tutto il lusso parte da qui, perché il saper fare è ancora tramandato da padre a figlio. Per me “made in Italy” non significa solo fatto in Italia, ma fatto dal sistema italiano, tutti quei distretti così diversi tra loro ma che insieme trasmettono una cultura unica.

Come vedi l’Italia oggi?

Mi piace osservare la storia, perché è sempre ciclica e riesce a offrirci anche uno sguardo al futuro. Ci sono stati anni d’oro e anni di crisi. Forse abbiamo un gap di ricordo e negli anni abbiamo un po’ perso cosa significa migliorare l’Italia nel vivere tutti i giorni. Per me ricordare l’Italia è riscoprire il gusto di essere “local first, global second” (locale prima, globale dopo, ndr). Bisogna partire dalle radici per far crescere un albero dai frutti bellissimi.

Un pensiero in controtendenza rispetto a un mondo che ci vuole sempre più “global”.

È vero. Ogni volta che torno nelle Marche, vivo a Milano ma faccio spesso visita ai distretti produttivi, i miei migliori incontri sono con le tradizioni locali. Mi ritrovo a bere l’aperitivo con signori di 70 e 80 anni che hanno un sapere incredibile da condividere. Sono momenti per me preziosi e che mi aiutano a capire meglio il mio lavoro. Con questo non voglio attaccarmi alla tradizione e fossilizzarmi, ma voglio riportare l’attenzione sul nostro heritage innato che è fondamentale e non possiamo più bypassare. Sono molto felice di vedere che sempre più persone stanno riscoprendo il valore di essere “italian artisan”.

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