In guerra i civili cercano risposte. Dove nascondersi, cosa mangiare, come salvare i propri figli, la casa. I soldati, invece, dimostrano insofferenza di fronte alle domande. Alla più comune, soprattutto: quando finirà?
È la domanda sbagliata, dice Dmytro, nome di battaglia Bison, appena arrivato con la sua unità a Siviersk, nella regione di Donetsk. Quella giusta è: quando arriveranno le armi che ci avete promesso?
I soldati scaricano i mezzi, le coperte, i sacchi a pelo, le torce e le scorte d’acqua e cibo in scatola. Le brandine e le armi. Yaroslav, il suo compagno di stanza, responsabile delle armi anticarro, i Javelin, è già sulla zero line, la prima linea del fronte.
Dmytro ha ventisei anni e pare avere una spiegazione per tutto. In Donbass, dice, abbiamo difficoltà perché i russi conoscono la zona, perché qui combattono da otto anni e perché coglierli di sorpresa per noi è più difficile. È la sua spiegazione della battaglia che si è spostata nella provincia di Donetsk, dopo che le truppe del Cremlino controllano ormai la limitrofa Lugansk.
A nulla vale replicare che anche l’esercito ucraino combatta lì dal 2014. È la sua logica e non ammette obiezioni.
All’unità con cui combatte è stato assegnato un edificio per metà distrutto, un istituto tecnico colpito la settimana scorsa da un attacco missilistico russo. All’esterno restano faldoni di libri bruciati, registri, attrezzature dei laboratori e lo stemma della scuola.
A casa, nella regione di Sumy, lo aspettano sua madre, i fratelli più piccoli, la fidanzata. Anche per loro, che vivono lo sforzo quotidiano di tirare avanti, l’unico quesito è quello dell’impazienza: quando finisce?
Dmytro, centinaia di chilometri lontano da casa, allontana il miraggio del futuro: «La vita al fronte funziona così, pensi al compito che ti è stato assegnato - colpire le posizioni nemiche - e torni alla base». Il resto non conta, non conta il futuro. La preoccupazione per il domani, in guerra, è un lusso che possono permettersi i civili. Non i soldati soprattutto se, come lui, hanno perso un amico proprio a Severodonetsk. L’unità con cui combatteva è stata colpita, decimata, metà dei soldati sono tornati a casa nelle bare.
Nel Donbass il conflitto non si ferma e quello intorno Siviersk è il settore più attivo. I russi hanno conquistato tutte le sacche di resistenza intorno a Lysychansk, caduta dieci giorni fa, e sono avanzati nel fondovalle conquistando Bilohortivka e puntando sulla zona di Yampil.
L’obiettivo della lenta avanzata è chiaro: attaccare Siviersk da Nord, conquistare posizioni a Ovest prima di puntare su Sloviansk. Il Cremlino, raggiunti gli obiettivi nella provincia di Lugansk, aveva dichiarato una pausa operativa ma è chiaro che il tempo serva a riorganizzarsi a riposizionarsi in vista di battaglie che si annunciano ancora più feroci.
La campagna russa per conquistare la parte orientale dell’Ucraina, fatta di uso massiccio dell’artiglieria e conquista di un villaggio dopo l'altro, ha dimostrato di funzionare. Non importa quanto ci vorrà. Anche per loro, per i soldati del Cremlino, quando finirà non è una domanda pertinente, d’altronde le ambizioni degli imperi non hanno fretta.
Dall'altra parte, quella di Dmytro e dei suoi, è sempre più forte la pressione delle perdite di uomini e della parziale ritirata.
Di responsabilità i soldati non vogliono parlare, soprattutto davanti ai superiori, ma mentre cammina nei campi adiacenti alla scuola distrutta, Dmytro-Bison dice che continuare a combattere per Severodonesk è stato un errore, che avevano capito tutti che era persa, che accanirsi era inutile. Bisognava spostarsi prima, avere rinforzi, schierarsi più massicciamente sulla linea difensiva di Donetsk. In una parola, bisognava ritirarsi prima, come è stato fatto poi per Lysychansk.
A guardarla dagli occhi di chi combatte sul lato ucraino, la guerra in Donbass è tesa e racconta le difficoltà delle forze armate: tanti volontari pronti alla guerra e pronti a morire, è vero, ma poco addestrati. Troppe le perdite di uomini e mezzi, troppe le decisioni dei vertici dello Stato Maggiore che i comandanti sul campo giudicano sbagliate pur dovendole eseguire. Oggi, con la provincia di Lugansk caduta, è chiaro che l’obiettivo di rendere la conquista dei territori il più difficile e dolorosa possibile per l’esercito russo è stata, da parte di Kiev, una decisione superficiale e rischiosa, che ha provocato troppi danni e che rischia, alla lunga, di favorire Mosca.
Il mandato per l’esercito ucraino, dall’inizio della guerra, è stato: resistere al fronte il più possibile anche a costo di grandi sacrifici in attesa che arrivino le armi occidentali. Armi di precisione come i sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità- gli Himars - che consentono di colpire anche a lunga distanza e che due giorni fa hanno distrutto un deposito di munizioni nella regione di Kherson. La settimana scorsa gli Stati Uniti hanno annunciato che ne invieranno altri quattro che andranno a unirsi agli otto già inviati e che secondo alti funzionari della difesa statunitense saranno particolarmente utili in Donbass dove la guerra è e sarà principalmente una guerra di artiglieria.
Iaroslav, nome di guerra Staf, ha 23 anni, fa parte dell’Artillery Unit della Guardia Nazionale Ucraina, addetto ai cannoni semoventi.
È in una posizione, che l’unità chiede di non rivelare, nella regione di Donetsk. Prima di arrivare in Donbass ha combattuto due mesi nella regione di Kiev e per lui, dice, nonostante le differenze di strategia la natura del conflitto è sempre la stessa: gli ucraini combattono un invasore, i russi combattono contro i civili.
Nascosti tra gli alberi quattro mezzi semoventi in attesa di muoversi dopo aver ricevuto le posizioni russe, e colpire. In attesa, con il timore di essere un obiettivo, col rischio che loro, dall’altra parte, stiano aspettando altre coordinate, le sue.
Si vive e si muore così, nella guerra d’artiglieria. Coi droni che volano sopra la testa, la paura di essere i prossimi.
Iaroslav/Staf non è spaventato dall’idea di morire sul campo. Non ha la posa dell’eroe e non ostenta coraggio perché, «io sono al fronte ma dietro di me ci sono i civili, c’è la mia famiglia, ci sono i miei amici. E anche loro, come me, sono un obiettivo. Però non possono difendersi».
Lungo la strada che conduce fuori Siviersk una settimana fa è stato colpito un magazzino con le scorte di grano. Il proprietario prima di lasciare la città ha detto alla gente del paese di andare a raccogliere quello che riuscivano a salvare.
Così ieri Anatoly ha preso la sua bicicletta, i sacchi e ha pedalato fin lì, per recuperare qualcosa con cui sfamare almeno i suoi animali perché non resta più niente nemmeno per loro, in zona non ci sono più mangimi da almeno tre mesi. Anatoly aveva due maiali che ha ucciso, un po’ per avere di che nutrirsi e un po’ perché non avrebbe potuto dar loro da mangiare. Gli restano i polli, è venuto per loro. Se i missili non avessero colpito il magazzino non avrebbero nemmeno questo grano che ormai è da buttare. I campi intorno sono bruciati, in mezzo alla cenere i resti dei razzi e delle bombe a grappolo.
Anatoly, che ha speso la vita a seminare e raccogliere, dice che qui, a Siviersk, a luglio tutti si dedicano al grano. Quest’anno prevedevano di raccogliere tre tonnellate e invece niente.
Ha settant’anni, il corpo scarno e il viso stanco: «La gente di qui è abituata alla fatica e ai guai, ma a questo non eravamo preparati».
Intorno la gente raccoglie i resti di casa dai crateri dei missili della notte precedente. Mentre lasciamo la città un razzo colpisce un campo che va in fumo, una donna corre fuori di casa, grida la domanda dell’impazienza: «Quando finirà?».