foto da Quotidiani locali
SAN VITO DI FAGAGNA. «Se nell’azienda entra una certa quantità di sottoprodotto alimentare e l’allevamento dispone di 2 mila animali, quel pane non trova altra giustificazione che di servire a nutrirli tutti».
Tra gli argomenti con cui la Procura aveva sostenuto le accuse di frode nell’esercizio del commercio e contraffazione alimentare a carico di Paolo Genero, 53 anni, di San Vito di Fagagna, c’era anche un calcolo matematico.
A suggerirlo erano stati i carabinieri del Nas di Udine, all’esito degli accertamenti condotti nella sua azienda agricola. «Un percorso logico astrattamente corretto, che giunge però a conclusioni errate in quanto errate sono le premesse», aveva osservato il difensore, avvocato Luca Francescon.
Non si sbagliava. Giovedì 7 luglio, il giudice monocratico del tribunale di Udine, Rossella Miele, ha assolto l’imputato con la formula più ampia «perché il fatto non sussiste».
A monte, l’ipotesi che per alimentare i maialini fossero stati usati scarti derivati dalla produzione industriale del pane per i tramezzini. Ossia, un prodotto non consentito dai disciplinari del Consorzio che salvaguarda la tipicità e le caratteristiche del prosciutto con denominazione di origine protetta (Dop).
Il pm, alla fine dell’istruttoria, aveva proposto la condanna a 1 anno di reclusione e il Consorzio San Daniele, costituitosi parte civile con l’avvocato Luca Zanfagnini, aveva chiesto un risarcimento di 25 mila euro per il danno d’immagine subìto.
«Credo che la sentenza sia frutto di una visione ipergarantista, che si scontra con dati oggettivi», ha commentato il legale, ricordando come «la documentazione acquisita negli anni dimostri l’uso massiccio di sottoprodotti fatto in quell’azienda». Da qui, la decisione di riservarsi l’eventuale ricorso in appello per le statuizioni civili.
A Genero era stata contestata la cessione a un salumificio di Varmo di 2.723 capi nutriti in modo non conforme ai requisiti previsti e lui aveva spiegato che il sottoprodotto trovato stoccato in un silos era destinato all’ingrasso di suini non indirizzati alla filiera Dop.
«Per azzerare la ricostruzione accusatoria – aveva affermato l’avvocato Francescon –, sarebbe bastato scardinare il ragionamento deduttivo sul rapporto tra quintali di sottoprodotto introdotti e numero di animali presenti. Nell’arco di un anno – aveva precisato – l’azienda “gira” circa 3.700 capi».
Nell’insistere sull’«evidente deficit di indagine e, quindi, probatorio» del procedimento, la difesa aveva proposto una serie di elementi «certi» anche rispetto a presenza di suini di peso inferiore ai 30 chili e di suini danesi e ai suini venduti fuori dal circuito Dop.