Nel momento in cui la notte appare più buia si mostra finalmente una luce brillante. Da decenni assistiamo all’avanzare di una forza rivoluzionaria e distruttiva che assume forme diverse ma punta a un obiettivo molto chiaro: la disgregazione delle istituzioni tradizionali, la frantumazione della famiglia, l’eliminazione totale di ciò che resta del sacro. Verrebbe da pensare che questa potenza - del tutto simile al Nulla de La storia infinita - abbia ormai definitivamente trionfato, lasciando al suo passaggio soltanto macerie.
Ma ecco che, all’improvviso, forze contrarie si manifestano. Poteri frenanti che arrivano da direzioni inaspettate, e magari minoritarie, ma che hanno dalla loro parte la robustezza che soltanto la verità può avere. Piccolo esempio. La regista Cristina Comencini, nota non soltanto per la sua opera artistica ma anche per la militanza femminista, ha pubblicato su Repubblica un articolo in cui, nei fatti, invoca il ritorno della madre.
Oggi, spiega la Comencini, la procreazione è un atto al limite dell’eroismo. «Le giovani donne hanno paura di dover rinunciare alla carriera, paura di partorire (aumento vertiginoso dei cesarei) quando il parto indolore è ormai pratica, hanno paura di perdere il loro corpo di ragazze, hanno paura di non essere all’altezza, hanno paura di essere sole» scrive la regista. «E tutto questo viene loro confermato ogni giorno, nessuno dice loro che è proprio l’inverso: che procreare è importante come lavorare, che si fa in due, che le società private e pubbliche dovrebbero avere al primo posto questo valore perché una donna e un uomo genitori assicurano molte cose in più di una popolazione senza figli. La maternità nuova deve diventare un problema politico, dello Stato, e devono essere messe in pratica tutte le azioni non solo per “assistere” le donne (siamo sempre in attesa) ma per mettere al centro dell’agenda politica la procreazione, che non è più un tema privato delle donne ma una questione di tutti, portata dalle donne libere a tutta la società».
Insomma, la madre deve tornare al centro, dice Cristina Comencini. E siamo senz’altro d’accordo con lei. Ma assieme alla madre non può non rientrare in gioco pure il padre. Solo con questa ritrovata armonia degli opposti potremo ricostruire la famiglia in pezzi, e ridare vita a una terra ormai devastata dalla sterilità. Potrebbe sembrare, questa, una speranza mal riposta, un sogno destinato a sbriciolarsi. Ma ci sono parecchi segnali che, al contrario, ci permettono di tenere alto il morale.
Sono quelli che raccoglie nel suo nuovo libro Claudio Risé, forse il primo intellettuale italiano ad aver preso di petto il dramma della scomparsa del maschile e dell’assenza del padre. Fenomeni su cui molti, in seguito, si sono cimentati, senza offrire per la verità grandi soluzioni. Risé oggi racconta una clamorosa inversione di tendenza. Un segno, così lo definisce parlando con Panorama, «del prevalere dell’istinto di conservazione dell’uomo, che fisicamente e strutturalmente è debole ma ha questa forza che gli ha consentito di prevalere su specie molto più forti. Questa» dice Risé «è una caratteristica di tutta la storia umana. A un certo punto, anche in momenti di grande crisi e grande difficoltà, riprende il contatto con la vita».
Eccolo, dunque, il ritorno del padre. «L’assenza è ormai inaccettabile anche per lui, che tiene a manifestarlo, e la donna è sempre più spesso pronta ad aiutarlo» scrive Risé. «Si tratta di fenomeni finora inattesi e di straordinaria attualità e interesse. L’immagine iconica che rappresenta meglio questa fase nella società è quella del padre che, sollecitato a riprendere il lavoro in azienda dopo i lunghi periodi di “lavoro da remoto” degli anni ’20-22, rifiuta di tornare alle condizioni lavorative e agli orari precedenti e comunica la sua volontà di stare di più con i figli, e vivere più pienamente la sua paternità. Un movimento (chiamato nel mondo la Great Resignation o: grande dimissione) che coinvolge nei Paesi sviluppati decine di migliaia di persone in sfide che sollecitano le società occidentali a un forte e profondo cambiamento, non solo produttivo ma esistenziale e spirituale. Comunque si risolva, sarà una svolta importante nelle scelte quotidiane di uomini e donne di oggi».
Come dicevamo, la verità prima o poi riemerge. E quando questo accade, è difficile arrestarla. Se l’uomo sperimenta ciò che lo fa stare bene, è più complesso convincerlo a fare il contrario. «Ciò che si manifesta, e il ritorno del padre segna, è la fine degli anni Settanta-Ottanta e dei loro miti comportamentali e culturali, rafforzati dalle leggi di quegli anni finalizzate all’indebolimento della famiglia con i suoi contenuti affettivi, e alla sua sostituzione con i nuovi strumenti elettronici di comunicazione e formazione, impersonale e collettivizzata» aggiunge Risé. «Questo modello cominciò a naufragare attorno al 2010, proprio quando arrivò alla maggiore età la prima delle generazioni che si erano formate nel mondo degli anni Settanta, poi quella dei millennials, seguita dalle altre fino ai più recenti nativi digitali, ognuna con i suoi misteri e le sue pene. Che hanno però in comune la caratteristica di avere condiviso le sofferenze tipiche di quel periodo: la crisi della famiglia successiva alla generalizzazione dei divorzi, l’espulsione del maschile dall’esperienza dell’aborto, la sostituzione dell’affettività personale con codici comunicativi standardizzati e collettivi, la propaganda delle diverse forme di maternità surrogata e artificiale. Come raccontano con precisione la maggior parte degli studi sociologici e psicologici sull’argomento, i ragazzi usciti dall’esperienza dei genitori anni Settanta e Ottanta avevano ben chiaro in testa che con quel tipo di famiglia e di vita affettiva volevano avere a che fare il meno possibile. Avevano già sofferto troppo personalmente, e visto con i loro occhi che quella famiglia non funzionava, soprattutto per i figli».
Non è un caso che la crisi si sia manifestata fra quei decenni, appena dopo la rivoluzione sessuale. Quell’epoca ha avuto sulle generazioni seguenti conseguenze pesanti. La prima è stata «il rigetto del matrimonio». Ma Risé nota che «dopo il primo decennio di questo secolo, il ricorso al divorzio smette di aumentare e il matrimonio molto gradualmente torna a essere il sogno di molti giovani. Anche se spesso non esplicitato perché la loro fiducia negli adulti (e in sé stessi) rimane a lungo scarsa, per via delle esperienze traumatiche subite. Il loro atteggiamento però cambia profondamente ed esprime abbastanza presto ciò che del resto riconoscono e dichiarano: il bisogno di scambi affettivi, quel caldo centro della famiglia che non sanno se saranno in grado di costruire, ma certamente desiderano».
È ritornato un desiderio positivo. C’è chi desidera il ritorno della madre, chi quello del padre. C’è chi riprende a credere nel matrimonio, chi ritiene che la famiglia sia ancora (e sempre) indispensabile. I semi della rinascita ci sono. Sta a noi - e alla politica - farli crescere affinché portino frutti dolci.
