La città è protagonista e simbolo della provincia nel romanzo edito da Rizzoli. Il lavoro letterario diventerà uno spettacolo teatrale e forse anche un film
MANTOVA. Impossibile non appassionarsi alle vicende della brigata picaresca del Profeta e degli altri lanzichenecchi, che attraversano a perdifiato le pagine del romanzo “L’azzardo” (Rizzoli). Impossibile perché la storia si svolge quasi per intero a Mantova, che, pur nella sua unicità e con il suo carattere, diventa specchio della provincia tutta, un microcosmo percorso dalle dinamiche del mondo e dalle talentuose fragilità degli uomini. Impossibile non abbandonarsi al ritmo della storia, anche, e soprattutto, perché le vite dei sette lanzichenecchi sono impastate di vizi e di virtù, gli stessi ingredienti che, in proporzioni variabili, orientano i nostri passi. E comandano i nostri inciampi. Scritto a quattro mani da Igor Esposito e Peppino Mazzotta (noto al pubblico televisivo perché interpreta l’ispettore Fazio nella fortunata serie di Montalbano), il romanzo diventerà uno spettacolo teatrale e, probabilmente, un film.
Il respiro della commedia già ce l’ha: la storia fila come una sceneggiatura, sostenuta da una scrittura felice e musicale, a tratti barocca. Il Profeta attorno a cui ruota la banda è Leandro, appassionato d’arte che per vivere s’inventa copista di capolavori. L’ossessione che lo lega agli altri sei – il Boccaccio, Marlon Brando, il Vesuvio, Tacito, il Negro, Maometto – è quella delle scommesse al punto Snai di piazza Arche. Scommesse calcistiche. Eccolo il vizio, il brivido dell’azzardo che scuote dalla noia e offre un senso ai giorni dei lanzichenecchi. Se l’ossessione è la stessa, i loro talenti si esprimono in campi diversi, dal tango alla cucina. Ma per quanto Leandro cerchi d’infiocchettare la febbre del gioco, fino a spremerne una filosofia di vita estranea al denaro, l’azzardo minaccia di rovinare tutti quanti. E stende sulla commedia una tinta noir. Con un finale acrobatico.
Poeta e drammaturgo, Esposito ha vissuto alcuni anni a Mantova prima di tornare nella sua Napoli. «Leandro è un essere introverso, un po’ timido, silenzioso, brumoso – dice del protagonista del romanzo – proprio come Mantova, una città silenziosa, a volte nebbiosa. Ma come Mantova, quando si tratta di agire Leandro sa cosa fare. Da uomo del sud abituato alla “caciara”, questo aspetto della città mi ha sempre affascinato».
Nel raccontare della sua relazione con la città, Esposito si spinge oltre, fino al limite della confidenza: «Con Mantova ho capito lo stesso rapporto che ho con Napoli. Un rapporto di amore e odio, anche se odio è un’esagerazione. Di Napoli amo il suo vitalismo sfrenato, il suo caos e, al contempo, tutto ciò, a volte, mi diviene insopportabile. Così come di Mantova ho amato i suoi silenzi, le strade che si desertificavano al calar della sera e, al contempo, proprio questo aspetto, a volte, mi faceva soffrire».
Sembra un paradosso, ma è una dichiarazione d’amore: «Come ho studiato e scritto a Mantova non l’ho mai fatto in nessuna delle città in cui ho vissuto. Non a Napoli né a Barcellona o ad Amsterdam». A scommettere sulla provincia, può capitare di vincere.