Draghi accusa crescenti difficoltà di governo. Colpa di un Parlamento che risale all’ormai lontano 2018, quando spirava la bora anti-establishment, e di una legislatura sfilacciata in cui le ombre si allungano e i pugnali vengono metaforicamente sguainati. I partiti avvertono l’imminenza delle elezioni, e si agitano. Il premier riconosce fin troppo bene cosa stia accadendo, e ovviamente è preoccupato. Ha anche capito, però, che le agende diplomatiche globali giocano a suo favore. Senza di lui, il G7 avrebbe la consistenza di un budino, e l’Italia verrebbe di nuovo risucchiata in una nebulosa ambigua. Con i nuovi equilibri mondiali, si tratterebbe di uno scenario pericoloso. Resta da capire se tali equilibri possano prevalere sui regolamenti di conti di fine legislatura a Roma, che in circostanze diverse avrebbero già determinato la fine politica di Draghi.
L’ultimo episodio in ordine di tempo è il tour europeo del primo ministro giapponese Fumio Kishida, con la sua visita a Roma la scorsa settimana. Kishida ha chiesto unità di fronte alla formidabile sfida dell’invasione russa dell’Ucraina, ma anche di una Cina tanto arrembante quanto incerta. La visita del numero uno nipponico ha avuto una discreta risonanza, non solo in Italia ma anche all’estero. C’è dell’altro: Kishida ha incontrato Draghi dopo aver ricevuto il tedesco Olaf Scholz a Tokyo e pochi giorni prima della visita del premier italiano a Washington di questa settimana, in un simbolico abbraccio e passaggio di testimone. È ormai alle viste il prossimo summit G7 a Elmau, in Germania, sotto la presidenza di turno tedesca, e il premier del Giappone sta preparando meticolosamente l’incontro. Il messaggio di fondo è chiaro: di fronte al blocco eurasiatico - Russia ma anche Cina - serve unità e fermezza da parte dei Sette grandi come mai prima.
L’assist giapponese a Draghi è notevole. Gli si è dato atto di aver ricondotto con coraggio l’Italia nell’alveo dell’euroatlantismo, dopo numerosi anni di sbandate e flirt di Roma con Cina e Russia. Inoltre, gli viene demandato il fondamentale compito di fungere da raccordo con l’altra sponda dell’Atlantico. È un riconoscimento tributato alla persona dell’ex presidente Bce e al suo curriculum più che all’Italia, dal momento che, se sul piatto della bilancia finissero le economie dei membri del G7, il ruolo in questione toccherebbe al Giappone stesso o alla Germania.
Va detto che Scholz era già stato a Washington, tenuto per mano da Angela Merkel e ancora cancelliere in pectore, e in questo periodo ha preferito accordare priorità al Giappone, rompendo così la tradizione di colei che l’ha preceduto, la quale nei suoi viaggi di Stato in Asia aveva sempre visitato la Cina prima del Sol Levante. Senza contare che Scholz si ritrova qualche brutta gatta da pelare in casa propria: da settimane, ormai, l’ambasciatore ucraino a Berlino Andrij Melnyk prende di mira governo e istituzioni tedesche, denunciandone con un linguaggio molto diretto lentezza e ambiguità. L’establishment tedesco non ha gradito il continuo punzecchiamento, e il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung ha ribattezzato Melnyk «Krawalldiplomat», ambasciatore fracassone.
Il cancelliere, insomma, ha un ruolo di rilievo nel G7 ma al momento tutto gioca a favore di Draghi, e in definitiva la cosa va bene a tutti all’interno del club. Questo stato di cose legittima il presidente del Consiglio italiano come interlocutore privilegiato degli americani e figura di luogotenente in un’area, quella euro-mediterranea, tornata «calda» come mai sulle mappe globali. È un ruolo cui lo stesso premier non intende sottrarsi, tanto più che da tempo sembra tornato al primo amore: gli Stati Uniti. Dopo lunghi anni di sostanziale disinteresse americano per l’Italia, sulle rive del Potomac Roma è tornata di attualità, anche se non tutto può dirsi assestato.
Colpisce, per esempio, che dopo così tanti mesi trascorsi dall’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ancora non sia stato nominato un ambasciatore a stelle e strisce in Italia, al punto che il ricevimento a Villa Taverna per l’Independence Day del 4 luglio prossimo dovrà essere gestito dal chargé d’affaires (peraltro uscente) anziché dall’«inquilino ufficiale». Al netto di questi aspetti di colore, non vi è dubbio che Draghi stia investendo energie sul rapporto con gli Stati Uniti. Nell’attuale amministrazione democratica può contare su un’amica, Janet Yellen, oltre che su settori di «deep State», il decisivo Stato profondo. Quella del premier è una scommessa che potrebbe rivelarsi vincente e ripagarlo delle ammaccature rimediate nella corsa al Quirinale. In caso di elezioni nel 2023, infatti, senza una maggioranza netta uscita dalle urne, Draghi potrebbe ricevere un nuovo mandato da presidente del Consiglio. Nel 2024, appena un anno più tardi, ci saranno le Europee e dovrà essere nominato il successore di Ursula von der Leyen.
L'autore, Francesco Galietti, è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar