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Covid, sos per le nuove varianti più contagiose che reinfettano chi è guarito dal virus

ROMA. Allarme per le mutazioni del virus. Guardando alla pandemia Covid-19 in maniera globale, si segnala la comparsa di due nuove varianti, Omicron 4 e 5, che a breve potrebbero rappresentare un rischio. In base ai primi dati provenienti dal Sud Africa, dove queste varianti sono comparse e stanno circolando, esse sarebbero non solo più trasmissibili delle precedenti, ma sarebbero soprattutto in grado di reinfettare, anche a breve distanza di tempo, i soggetti guariti da Omicron 1 e 2. Del resto Omicron 4 e 5 hanno, rispetto alle precedenti varianti, una mutazione chiave, F486V, nello spike che permetterebbe loro di eludere la risposta anticorpale sia naturale che post-vaccino. I dati preliminari (non ancora pubblicati) indicano che queste varianti sono in grado di eludere la capacità neutralizzante del siero sia dei vaccinati con tre dosi che dei guariti da Omicron successivamente vaccinati. Gli anticorpi monoclonali - e questa è invece una nota positiva – bebtelovimab e cilgavimab mantengono inalterata la capacità di neutralizzare anche queste due nuove varianti (Cao Y. e altri).

CHINA-HEALTH-VIRUS

Parametri
La scorsa settimana si è caratterizzata, dal punto di vista epidemiologico, per un calo significativo dei contagi a cui si è associata una riduzione di tutti gli altri parametri, vale a dire i ricoveri in area medica ed in terapia intensiva, il rapporto tamponi positivi/totali, anche se purtroppo permane stabile il numero dei decessi che resta sempre superiore a 900 alla settimana. Questo quadro in miglioramento potrebbe però risentire del numero molto basso, rispetto al passato, di tamponi eseguiti, la maggior parte dei quali di tipo antigenico che sono meno sensibili di quelli molecolari. La comparsa di Omicron 4 e 5 in Sud Africa offre anche lo spunto per una più ampia valutazione dell’attuale situazione epidemiologica e dei suoi possibili sviluppi futuri (Callaway E.). Queste due nuove varianti sembrano indicare che le ondate epidemiche di SARS-CoV-2 stanno iniziando a stabilizzarsi, secondo schemi prevedibili, con la comparsa periodica di nuovi ceppi virali, il che indicherebbe una differenza importante rispetto ai primi due anni di pandemia, quando le varianti comparivano in modo assolutamente casuale ed imprevedibile. Secondo alcuni ricercatori infatti, la comparsa di Omicron 4 e 5 ricorda quanto avviene per altre infezioni virali respiratorie ed in particolare per l’influenza, motivo per il quale in futuro sarà probabilmente necessario continuare ad aggiornare i vaccini anti COVID-19 per limitare la diffusione delle nuove varianti.

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Potenziale
La variazione del potenziale elettrostatico di superficie della proteina spike è stata oggetto di un precedente studio (Pascarella S. e altri) che ha indicato che per la variante Delta ed Omicron, essa potrebbero influenzare il legame spike/recettore ACE2, aumentando così la capacità di trasmissione di queste varianti. Sempre su questo tema, uno studio più recente (Yuan S. e altri) ha confermato quanto inizialmente osservato ed ha, in aggiunta, prospettato che l’alterazione del potenziale elettrostatico possa anche rendersi responsabile di una minore capacità neutralizzante da parte degli anticorpi sia naturali che indotti dalla vaccinazione nei confronti di Omicron. Nel corso della pandemia COVID-19, già precedenti segnalazioni avevano indicato la presenza di RNA virale di SARS-CoV-2 nelle acque fognarie delle città e questo dato era stato interpretato come una ulteriore possibilità per monitorare l’andamento dell’epidemia e la sua diffusione a livello locale. Una recente ricerca (Petillo M. e altri) si è focalizzata sulla relazione che esiste tra SARS-CoV-2 e batteri isolati nelle feci di pazienti affetti dal COVID-19 per studiare l’eventuale coinvolgimento del microbioma umano nello sviluppo della malattia. In particolare, secondo questo studio, ci potrebbe essere una replicazione virale nei batteri, il che ipotizzerebbe per SARS-CoV-2 la possibilità di un comportamento simile ad un batteriofago (cioè di un virus che infetta i batteri), anche se naturalmente questo iniziale dato dovrà ottenere ulteriore conferma da ricerche più ampie ed approfondite.

Batteri
Sempre sul tema del rapporto SARS-CoV-2 e batteri intestinali, si segnala un ulteriore studio (Brogna C. e altri), condotto utilizzando la microscopia elettronica e l’immunofluorescenza, che suggerisce che SARS-CoV-2 potrebbe infettare i batteri intestinali, agendo ancora una volta come un batteriofago. Anche se l’ipotesi di una infezione e replicazione del virus nei batteri (oltreché nelle cellule umane) è sicuramente molto stimolante e potrebbe aprire interessanti prospettive, essa andrà, come già detto, ulteriormente verificata e confermata. Uno studio estremamente sofisticato (Poletti M. e altri) ha mappato l’interattoma (cioè il complesso delle interazioni molecolari a livello cellulare) delle cellule epiteliali ed immunitarie che regolano l’infiammazione in corso di infezione da SARS-CoV-2 nell’intestino e nelle vie aeree superiori. La miglior conoscenza di questo complesso sistema che interviene nel regolare il segnale intracellulare delle cellule epiteliali e quindi anche la risposta immunitaria attraverso le cellule immunocompetenti presenti localmente, potrebbe in futuro rivelarsi utile per considerare la possibilità di un approccio terapeutico personalizzato. Fin dai primi momenti di questa pandemia, ci si è interrogati sul valore e sul ruolo svolto dalla genetica nel condizionare l’evoluzione dell’infezione / malattia da SARS-CoV-2. In uno studio (Niemi M.E.K. e altri) questi aspetti sono stati oggetto di un’ampia analisi e sono state in particolare identificate alcune caratteristiche a livello genetico che potrebbero spiegare il perché di una differente evoluzione della malattia e della risposta ai vaccini nei diversi soggetti.

Aspetti genetici
Gli aspetti genetici sono stati anche oggetto di un’importante ricerca italiana (D’Alterio G. e altri) che ha evidenziato come 800 contagiati da SARS-CoV-2 con fattori di rischio, non hanno sviluppato sintomi gravi, dal momento che presentavano mutazioni genetiche a carico in particolare di 3 geni (Masp 1, Colec 10, Colec 11) tutti appartenenti alla famiglia delle proteine della lectina implicati nella difesa contro le infezioni. Le conclusioni a cui giunge questa ricerca dimostrano quindi che vi sono alterazioni del genoma umano che attenuano l’eccessiva risposta immunitaria, causa principale del danno infiammatorio di diversi organi quali polmoni, cuore, reni ed altri, predisponendo quindi ad una infezione grave. In modo molto lodevole, i ricercatori hanno reso disponibile a tutti un database on-line che raccoglie i dati genetici ottenuti, il cui nome è “Esposito”, molto evocativo della città dove è stata condotta questa ricerca.

Quarta dose
L’efficacia della quarta dose di vaccino a mRNA (Pfizer), è stata oggetto di una analisi condotta su base nazionale in Israele dal 3/01 al 18/02/2022 (Magen O. e altri). In particolare, si è valutata l’efficacia della 4a dose rispetto alla 3°, somministrata almeno 4 mesi prima, nei soggetti di età pari o superiore a 60 anni. I risultati ottenuti indicano che la somministrazione della 4a dose del vaccino Pfizer è efficace nel ridurre in questa popolazione il rischio a breve termine di eventi correlati a SARS-CoV-2, anche se rimane ancora oggi aperta ed irrisolta la questione relativa alla durata di questa protezione. La sicurezza dei vaccini, insieme alla loro efficacia, è stata una priorità fin dal momento che questi sono stati approvati e quindi somministrati a milioni di persone. Questo argomento ed il ruolo in questo campo svolto da due importanti organismi di controllo americani, FDA e CDC, è stato oggetto di riflessione ed approfondimento (H. Cody Meissner). Muovendo dalla constatazione che, inevitabilmente, nei prossimi decenni potranno emergere malattie a carattere epidemico causate da nuovi patogeni, sarà necessario, per contenere la diffusione di questi, sviluppare, ma soprattutto rendere accettabile all’opinione pubblica i nuovi vaccini che verranno prodotti e che insieme alle misure di prevenzione rappresentano la migliore risposta per assicurare la protezione. Perché questo avvenga, bisogna che ci sia forte fiducia negli organismi di controllo, in modo che la popolazione generale risponda positivamente all’introduzione dei nuovi vaccini. Va sottolineato che quest’ultimo aspetto non sempre si è verificato nel corso di questa pandemia.

Diario della pandemia

E’ stata pubblicata un’interessante riflessione di un medico statunitense (Garfinkel A.C) che in questi due anni e mezzo di pandemia è stata in prima linea nella cura dei pazienti COVID-19. Leggendo questa coinvolgente testimonianza, si ripercorrono le situazioni che quotidianamente si vedono nella pratica clinica e che coinvolgono i pazienti fragili, i pazienti non vaccinati, i pazienti che rifiutano le cure. La conclusione di questa riflessione è riassunta in modo molto efficace nel titolo, che è la sintesi a cui giunge l’autrice dopo aver intensamente vissuto questo periodo di pandemia: “Dal risentimento alla riconciliazione: riflessione sulla cura dei non vaccinati”. Una revisione sistematica ed una meta-analisi sul Long Covid è stata condotta in oltre 120.000 pazienti, ricavati da 196 diversi articoli scientifici pubblicati (Di Gennaro F. e altri). I risultati ottenuti da questa corposa revisione indicano che la condizione di Long Covid è piuttosto comune in chi è stato infettato da SARS-CoV-2, indipendentemente dalla gravità clinica ed è quindi presente sia nei sintomatici che negli asintomatici. E’ inoltre più frequente nelle donne ed è stata segnalata maggiormente nel continente Oceania ed in alcune fasce di età.

Difetti
I difetti cognitivi persistenti, specie gravi, che si correlano a COVID-19 sono stati oggetto di un’analisi (Hampshire A. e altri) che ha coinvolto 46 pazienti che erano stati ricoverati tra il 10 marzo e il 31 maggio 2020, cioè nel corso della cosiddetta prima ondata. La conclusione di questo studio, è che i disturbi cognitivi valutati a distanza di tempo dopo COVID-19 sono strettamente correlati alla gravità della malattia acuta, persistono a lungo nella fase tardiva e migliorano lentamente, anche se non in tutti i soggetti nei quali si sono manifestati. Fin da subito si è compreso che l’infiammazione innescata da SARS-CoV-2 giocava un ruolo essenziale nell’ influenzare l’esito della malattia COVID-19 e l’introduzione di farmaci anti infiammatori (cortisone, blocco delle citochine) agisce positivamente nel migliorare la prognosi. Si segnala su questo tema, una ricerca (Benedetti F. e altri) che si è focalizzata sul ruolo delle citochine nell’indurre e favorire lo sviluppo di depressione, analizzando la presenza di sintomi specifici ad essa correlati nei pazienti da 1 a 3 mesi dopo la dimissione. In base ai risultati di questo studio, viene prospettato un effetto protettivo del trattamento nella fase acuta di COVID-19 con farmaci che bloccano le citochine, anche se naturalmente questo dato richiede un’ulteriore conferma, studiando un numero maggiore di soggetti. In tutti i paesi del mondo è forte la richiesta di porre fine all’ emergenza e di ritornare alla vita pre-pandemia, anche se l’attuale situazione epidemiologica segnala ancora una vivace circolazione del virus.

Prevenzione
Questo tema è stato oggetto di una riflessione (Jill R. Horwitz e altri) che si è focalizzata sulla realtà statunitense. Gli autori, dopo aver analizzato nel dettaglio le varie misure di prevenzione, la campagna vaccinale e gli approcci assistenziali innovativi, primo fra tutti la telemedicina, concludono che la fine dell’emergenza va attentamente soppesata e decisa non in risposta alla stanchezza dell’opinione pubblica, ma in base alla reale situazione epidemiologica. Per questo l’allentamento delle misure di prevenzione e l’abrogazione delle regole restrittive introdotte con l’emergenza deve avvenire in maniera ragionata e progressiva, per non produrre danni alla gestione assistenziale dei malati, sia COVID-19 che non.

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