In seguito alla maxi inchiesta sul caporalato, con alcune aziende agricole nel mirino delle forze dell'ordine, emergono i racconti di chi ha sempre vissuto nel mondo del lavoro nero: tra paghe da fame e minacce
CAMPIGLIA (LIVORNO). Il meccanismo dello sfruttamento sta nelle pieghe del racconto di Serigne, 21 anni originario del Senegal, che per anni in un’azienda agricola della Val di Cornia si è occupato di raccogliere spinaci e cavoli. «Lavoravo dalle dieci alle undici ore al giorno, anche in condizioni meteorologiche difficili, per soli 5,50 euro all’ora – sostiene –. Mi dicevano: “Qui funziona così, questo è il sistema”. Iniziavo alle 7 del mattino e andavo avanti fino a sera». Una paga oraria quella di Serigne che è circa la metà di quella base prevista dal contratto nazionale di categoria eppure è tra i fortunati considerato i 2,50 euro dati ai braccianti all’opera nei campi delle tre imprese campigliesi sotto inchiesta.
Le ore lavorate ma non registrate in busta tra l’altro hanno un costo anche per le casse dello Stato, in termini di evasione contributiva. La spia che qualcosa non giri per il verso della legalità al sindacato arriva quasi sempre nel momento in cui i lavoratori si presentano allo sportello per la domanda di disoccupazione. Le persone arrivano con un calendario di giorni lavorati maggiore rispetto a quelli che risultano dalle buste paga e scoprono spesso che così non raggiungono neppure i requisiti per la disoccupazione, per cui servono 102 giornate di lavoro in un biennio. Nella spirale ci finiscono clandestini, ma anche comunitari e italiani. Il loro stato di bisogno è tale che preferiscono lo sfruttamento. Raramente trovano il coraggio per denunciare se lasciati da soli.
A dare voce a uno degli sfruttati è il sindacalista Nicolò Cortorillo, della Flai Cgil di Livorno: «Tra chi lavorava nelle tre imprese sotto inchiesta c’è anche un uomo che dopo aver lavorato dal primo mattino alla raccolta nei campi il pomeriggio sostava nei capannoni a confezionare i prodotti e la notte partiva con il camion per fare le consegne ai mercati».
È soprattutto nell’ortofrutta, nelle coltivazioni a cielo aperto, ma anche nel taglio del bosco, che si affaccia il caporalato. Zone d’ombra. Spie di uno sfruttamento del lavoro migrante e non solo che non è una prerogativa meridionale. Malpagati e in nero, il medioevo nei nostri campi emerge dai racconti raccolti in anni di attività dai sindacalisti. Modou, 43 anni senegalese, per anni clandestino si è arrangiato con lavori in campagna. «Una mattina il nostro datore di lavoro ci ha minacciato di licenziamento perché non producevamo il quantitativo che lui desiderava, ben tredici cassette di spinaci all’ora», racconta. Ma è una condizione quella dello sfruttamento nelle campagne che si sposta anche lungo l’asse della filiera e che non fa distinzione di nazionalità. Il lavoro nero e malpagato esiste anche per gli italiani. «Lavoro dalle 11 alle 12 ore al giorno in un caseificio per sei giorni alla settimana, e spesso anche alla domenica, per guadagnare solo 900 euro al mese – dice Matteo, che ha 21 anni –. Sono costretto ad accettare queste condizioni indegne, ma purtroppo non riesco a trovare un impiego migliore».
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