Cristiano Caccamo è stato rimandato in recitazione. Scoppiamo entrambi a ridere quando me lo dice, considerando che da un’ora parliamo, senza prender fiato, dei suoi progetti passati, presenti e futuri. Era il suo primo anno in accademia e la prima volta che studiava una materia vagamente artistica. Parte della colpa la dà al suo accento: «diciamo che si sentiva molto che venivo da Taurianova, provincia di Reggio Calabria [dove è nato nel 1989]», dice. «In realtà mi sono innamorato della recitazione proprio grazie a quell’esame di riparazione. Avevo portato la Mandragola di Machiavelli, ma dovevo interpretare un elemento naturale, faceva ridere e, si sa, gli esercizi della scuola di teatro sono sempre ridicoli se li vedi da fuori. Da lì ho capito che gran parte del lavoro dell’attore è non prendersi troppo sul serio». 

Look Giorgio Armani

Lo conferma anche quello che posta sul suo profilo Instagram, che al momento in cui ci incontriamo nel bar di un hotel di Milano conta un milione di follower. È un alternarsi di pose molto serie senza la maglietta che corredano servizi fotografici e altri video buffi in cui improvvisa trucchi di magia o in cui finge di parlare malissimo l’inglese, come fa nel suo famoso format sugli “autfit”, che fa il verso a chi sui social non sorride mai e li usa solo per ostentare vestiti e stili di vita irraggiungibili. 

È su questa dicotomia che si muove Cristiano Caccamo, ti dice qualcosa di molto vero e poi cerca di buttarla sul ridere, lo fa per ridimensionarsi: «Credo sia molto presuntuoso pensare di poter cambiare le cose, se non riescono a farlo il Papa o i politici, perché mai dovremmo riuscirci noi attori? Noi, al massimo, possiamo alleggerirle». 

Abiti Giorgio Armani

Fa parte di una generazione di attori consapevoli del ruolo della propria immagine, che sanno perfettamente che i social sono una rappresentazione. Prestano il loro corpo a storie dalle narrazioni che si diramano sugli schermi della televisione e del cinema, e ai follower che sui social vogliono di più, regalando l’illusione di appartenere a loro quando, in realtà, anche quella è un’altra messa in scena

Senza sovrastrutture o bisogno di apparire, a Caccamo semplicemente piace raccontarsi. È quello che fa con tutti i suoi personaggi, che per quanto siano diversissimi tra loro, sembra sempre che ci sia qualcosa a legarli: «È difficile prescindere totalmente da sé stessi, in ogni cosa che faccio c’è anche un po’ di me, a partire dalla voce o dalla sagoma con le quali posso anche giocare a diventare qualcun altro, ma alla fine rimane una sensibilità, un desiderio, di leggerezza forse, che porto sempre con me». Bastano i primi tre minuti della terza stagione di Summertime per dargli ragione. 

Caccamo entra in corsa a far parte della serie Netflix ambientata sulla riviera romagnola, di cui è in arrivo la stagione finale il 4 maggio. Interpreta Luca, musicista di cui si innamora la protagonista Summer, che serve come diversivo per farle scordare di Ale che rincorre ormai da due stagioni. C’è, in questi primi tre minuti, tutta la leggerezza di cui parla Caccamo, uno scambio di sguardi tra lui e Summer, un dolce strusciarsi in pista da ballo, le mani sui corpi nudi e sudaticci che si sciolgono sulla sabbia prima ancora di scambiarsi le formalità. 

«Mai come prima sentiamo quella voglia di nuovi inizi che solo l’estate è in grado di darci, quella magica illusione che tutto è di nuovo possibile», risponde Caccamo, quando gli chiedo perché, dopo aver preso parte nel 2020 al film di Vanzina Sotto il sole di Riccione, sia ritornato a recitare in un prodotto per certi versi molto simile. «In realtà Summertime è stata per me un’occasione per spingermi oltre ai miei limiti, infatti suono la chitarra e canto». 
Lo fa per davvero? «Giuro, non sono in playback, ho imparato da zero, mi guardavo i video su Youtube e imparavo gli accordi dalle canzoni base come La canzone del sole». A vederlo sembra che gli venga naturale, trattenere gli sguardi su di sé sul palco mentre in mano tiene la chitarra e canticchia qualche canzone. «Mi piacerebbe approfondire il canto, è una forma d’arte che invidio molto a chi la conosce per davvero, perché è capace di emozionarti subito. La recitazione no, ci vuole tempo, devi affezionarti prima alla storia e poi magari anche al personaggio». A recitare ci è finito. «Come si dice in questi casi, per caso», spiega. 

«Mio padre è uno scrittore e mi ha sempre spinto a esprimere quello che ho dentro tramite le arti. Un giorno, quando ero  ancora all’università, mi ha chiesto perché non provassi con la recitazione, e la mia prima reazione è stata dirgli di no. Assolutamente no, ero troppo timido». Che Caccamo sia stato un adolescente timido potrebbe sorprendere chi scrolla le sue foto su Instagram in cui posa per i servizi fotografici e non si fa problemi a postare le Stories un po’ sceme, ma trovandomelo di fronte al tavolo del bar che giocherella con le dita in una posa un po’ rigida, mi sembra ragionevole. «In realtà sono ancora timido, certo, la recitazione e il teatro mi hanno aiutato molto. Alla fine ho risposto a mio padre: “Sai cosa? Perché no?». Così c’è stata l’accademia e l’incontro con la Mandragola di Machiavelli, poi il Centro Sperimentale. Parlando di prime volte, si ricorda alla perfezione il suo primo incarico, una produzione di Tanto rumore per nulla di Shakespeare al Globe di Roma: «Ci ho messo un po’ a realizzare che con la recitazione puoi divertirti un sacco e pure camparci». Intanto, negli Anni Dieci era sempre la sua faccia che appariva appena si illuminava il televisore, avendo recitato nelle fiction Rai più importanti come Don Matteo e Il Paradiso delle Signore. Poi in sette film, senza contare il teatro e le cose (molte) che devono ancora uscire. 

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Giustifica tutte queste trasformazioni, di personaggi e di mezzi d’espressione, dicendo che è importante per lui evitare di percorrere strade già battute: «Più un personaggio è distante da me più mi diverto a interpretarlo, è il lavoro dell’attore, fingersi qualcun altro. Si tratta di un gioco e non sono interessato a interpretare me stesso, perché comunque alla fine trovo sempre il modo di renderlo mio». Da come si racconta sembra descrivere un ragazzo le cui ambizioni si sono concretizzate ancora prima che avesse il tempo di inventarsele. Quanto c’entra in questo la bellezza a cui fanno riferimento le centinaia di commenti sotto i suoi post, lasciati in francese, portoghese, turco, insieme a qualche cuore trafitto dal suo sguardo terso e per certi versi famigliare (che è degli attori che compaiono in così tanti film generazionali che alla fine ci convinciamo che siano amici nostri)? Quando ha capito di essere bello, oggettivamente bello, e quando ha iniziato a usarlo? «Ancora prima di bello sono stato simpatico. Dai, esiste qualcuno che a 13 anni si piace nel suo corpo?», risponde. Quindi, andando più nel dettaglio, aggiunge: «È un’età imbarazzante, io avevo gli occhi a mandorla e i denti davanti storti. Poi, a un certo punto, ti accorgi di piacere. Inizi ad accorgertene quando hai successo con le ragazze, a quell’età ti serve sempre un riscontro esterno». 
Con Instagram l'approccio al tema è cambiato? «Ora ho fatto una scelta, voglio essere prima simpatico e condividere solo le cose belle o che fanno ridere», dice. «Niente vita privata, debolezze o cose tristi, il mondo fuori è già complesso abbastanza che ci manca solo che ci metta del mio. Quelle cose me le smazzo a casa, con la mia famiglia e i miei amici». 

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Prima di salutarci gli chiedo se ha un desiderio per il futuro, visto che l’estate sta per cominciare e con lei anche la sua serie che descrive come una lettera d’amore ai nuovi inizi. «Mi piacerebbe prima o poi provare un'esperienza all’estero, sfruttando il respiro internazionale di Summertime. Prima della pandemia sono andato in Spagna a studiare la lingua. Mi piace, mi ricorda l’italiano. Per ora non sogno l’America: per me è importante la cucina, lì soffrirei troppo. In realtà questo ruolo è già di per sé la realizzazione di un sogno: ti rendi conto che posso andare in vacanza tre mesi sulla riviera romagnola, in compagnia, giocare a interpretare un ruolo e chiamarlo lavoro?». C’è qualcosa nell’eccitazione con cui finisce di formulare la frase mentre ci alziamo dal tavolino del bar che mi convince che sia una possibilità a cui pensa davvero per la prima volta.


Foto: Andy Massaccesi
Styling: Chiara Spennato

Stylist Assistant: Lavinia De Alessandri
Grooming: Franco Chessa