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Gli scampati da Mariupol

Liubov Ilivcina è da ore su una seggiola. Il fazzoletto a fiori dai bordi marroni le cinge il volto, alla sua destra due buste di plastica bianche chiuse da un nodo strettissimo, su ognuna la scritta: Ucraina Umanitaria. Lo sguardo è fisso sulla borsa che tiene stretta sulle gambe, ha le mani rugose di vecchiaia aggrappate alla tracolla. È la sola cosa che le appartiene. L’unica che ha potuto portare via prima di scappare. Tutto il resto, da una settimana, è chiesto in prestito, è chiesto con lo sguardo basso di chi non ha più niente. Per questo, dopo sette giorni di «Avrei bisogno della biancheria» e «posso avere un po’ di brodo per favore», Liubov è stata vinta dal sentimento più diffuso e meno dicibile degli sfollati: la vergogna.

E siede lì, silenziosa e sola, perché dei tanti dolori della guerra, la vergogna è quella meno facile da condividere.

Davanti a lei una lunga coda di persone appena arrivate che hanno bisogno di abiti puliti e cibo caldo. All’ingresso della stanza una lavagna con affissi gli annunci per i dispersi, la foto di un giovane e un appello: sto cercando Ivan, l’ho visto l’ultima volta il 28 febbraio a Mariupol. Segue la via, un numero di telefono e una firma: sono Svietlana, la sorella. Se avete sue notizie ditegli che lo cerco, che mi manca. Accanto la foto di una donna in piedi con un fiume alle spalle. Sorride come si è soliti fare nelle foto ricordo di un viaggio o di una vacanza. L’appello è scritto con pennarello rosso sull’immagine: cittadini di Mariupol, lei è mia madre. Non sono riuscito a salvarlo. Aiutatemi, aiutatela se la vedete. Segue numero di telefono, e la firma. Mamma, sono qui, tuo figlio Ivan.

Liubov è seduta proprio lì, tra la coda di chi aspetta gli aiuti e la parete dei dispersi. La sua immobilità, il suo silenzio, spiccano nel movimento disordinato delle vite che ha intorno.

Sono tutti nel centro per sfollati di Zaporizhzja, città nella parte sud orientale del paese, che è insieme luogo d’approdo e nuovo potenziale fronte della seconda fase dell’offensiva russa in Ucraina. È lì che l’esercito ucraino sta rafforzando le linee difensive scavando nuove trincee per scongiurare l'attacco dell’esercito russo che da parte sua continua a colpire le posizioni ucraine meridionali con mortai e artiglieria pesante e sta stabilendo nuove strutture di comando vicino a Huliapola, 80 chilometri a est.

Huliapola è la città di Liubov e dei suoi figli. Il maggiore era un dentista, ora è al fronte. La minore lavorava come cuoca nella mensa della scuola elementare, ora è sempre in quella scuola ma cucina per i soldati. È il suo contributo alla resistenza, dice, e non è voluta venire via ma ha affidato sua figlia di quattordici anni a Liubov, affinché la portasse in salvo a Zaporizhzja. E Liubov l’ha fatto, ma la coda per chiedere una zuppa non la vuole più fare. È nata in guerra, dice, nel ’41, non pensava di vivere gli ultimi anni della sua vita in un’altra guerra. E non pensava di vedere sua nipote in coda per fare una doccia, chiedere un pasto caldo e ricevere un paio di mutande pulite.

Il grande hub dove arrivano gli sfollati, un tempo era una sala dedicata ai grandi eventi cittadini. Intorno la vita di Zaporizhzhia scorre in un’apparente normalità. I negozi sono aperti, così come i caffè. Di fronte alla sede dell’Università, sul viale centrale della città, un grande ristorante con i tendoni aperti a riparare dal sole. È primavera, due giovani si baciano stringedosi le mani, incuranti dei sacchi di sabbia che proteggono vetrine e monumenti. È la nuova consuetudine, la vita nonostante tutto, la vita con la guerra alle porte.

Zaporizhzhia è l’unica grande città nella parte sud-orientale dell’Ucraina sotto il controllo ucraino, per questo è diventata destinazione per migliaia di persone che fuggono dall’occupazione russa, per la sua posizione strategica è diventata uno degli obiettivi della seconda fase della guerra. È nell’oblast che porta il nome della città che si concentra la pressione delle truppe del Cremlino, perché Zaporizhzhia è a metà strada tra la città di Dnipro e la zona del Mare d’Azov e avanzare in quest’area significa spezzare in due la parte orientale del paese, compromettere le linee di rifornimento dell’esercito ucraino e poter organizzare l’assalto alle città del Donbass.

Minacciare Zaporizhzhia, poi, forzerebbe le forze armate di Kiev a spostare delle truppe dal Donbass per difenderla, disperdendo le energie dell’esercito.

È per questo che lo spirito dei volontari nei centri di accoglienza è di chi con una mano aiuta gli sfollati che giungono dai villaggi e dalle città del sud e con l’altra è pronto a chiederlo se la situazione dovesse precipitare.

All’ingresso del secondo centro una ventina di veicoli sono in coda per entrare. Ognuna un drappo bianco a segnare che siano civili. Arrivano da Melitopol, via Berdiansk. Dalle auto scendono donne, anziani e bambini. I funzionari locali prendono i dati di tutti mentre i poliziotti interrogano i pochissimi uomini che li accompagnano.

All’interno, in una solitudine simile a quella di Liuba, siede Marina Starukh.

Lei è qui da quattro giorni perché vuole tornare dal luogo da cui è scappata, e quel luogo è Mariupol.

Marina lavorava in ospedale come infermiera. Lì vivevano i suoi figli, il più grande quando è iniziata l’invasione era diventato padre da un mese. Viveva a Piazza Kirova e casa sua è stata uno dei primi edifici a essere colpito. Si è trasferito nello scantinato con i suoi vicini, sua moglie e il neonato. Passavano i giorni e cominciavano a scarseggiare cibo e acqua, così gli uomini hanno rotto i radiatori per raccogliere un po’ d’acqua e lavare i bambini e le donne hanno sciolto la neve per berla. Sua moglie ha cominciato a perdere il latte e il neonato a gridare per fame, così nonostante la paura delle bombe, lui ha preso con sé la moglie, la madre e il neonato ed è scappato via, verso Berdiansk da cui partivano i convogli. Era il 25 marzo, qualche sporadico corridoio umanitario riusciva a lasciare l’area. La famiglia di Marina ha seguito una colonna di mezzi umanitari, si è accodata, ma al check-point di Vasilivka i russi hanno cominciato a sparare contro i veicoli. Marina e i suoi familiari si sono buttati a terra, suo figlio ha preso il bambino rotolando dietro un muro, lei ha preso sotto il braccio sua nuora che gridava e ha cominciato a correre, per ripararsi in una casa. Sono rimasti mezz’ora nascosti prima di ripartire.

Dal convoglio mancavano due persone rimaste uccise.

Quando ha visto il primo check-point ucraino, Marina è scesa dall’auto, si è buttata in ginocchio di fronte ai soldati e si è aggrappata alle loro gambe. Poi ha proseguito verso Vinnitsya con i suoi. Da lì per tre settimane non ha avuto notizie di suo marito, rimasto a Mariupol. Fino a quattro giorni fa, quando una conoscente che è riuscita a lasciare la città le ha telefonato per dirle che suo marito aveva avuto un infarto in un campo mentre aspettava una razione di cibo, che era rimasto paralizzato, e dei vicini lo avevano trasportato in casa. Ma in casa non c’è acqua, né gas, né elettricità, e la città è distrutta. Marina non sa se la casa a cui la sua conoscente fa riferimento sia la sua, non sa che la sua sia ancora in piedi. E nessuno può aiutarla.

Così ha preso i documenti, un cambio e da Vinnitsya ha fatto il percorso inverso a quello che l'ha salvata, è arrivata nel centro di accoglienza e ha detto ai volontari che lei vuole tornare a Mariupol a salvare suo marito. I volontari si prendono cura di lei e non la lasciano salire sui mezzi che provano a raggiungere la città per portare via i civili, ogni giorno fallendo.

Marina non sa se suo marito sia vivo o morto, se qualcuno lo sfami, lo lavi, gli dica una parola gentile.

Non sa come raggiungerlo, né sa come portarlo via.

Siede sola. Non mangia, non guarda niente, non incrocia lo sguardo di nessuno. Ogni tanto una donna, sfollata come lei, si ferma, l’accarezza e le concede l'unico sollievo di chi soffre: farla piangere senza chiedere.

È il vincolo d’affetto naturale di chi condivide l’indicibile.

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