Nel 1981 Trieste con il sindaco Manlio Cecovini rinunciò all’acquisizione per la cifra di 100 milioni: «Mi fu risposto che avevano ben altro per la testa, problemi di strade, restauri urbanistici»
TRIESTE «Tutto ebbe inizio con una lettera del 1981 di Giordano Castellani, laureato pavese e professore di un liceo di Lugano, studioso del Canzoniere del ’21 di Saba, il qualche mi informava dell’esistenza di uno splendido fondo Saba, giacente a Roma e in possesso del vedovo di Linuccia Saba, figlia del poeta, il pittore Lionello Giorni, italianizzazione del cognome veneto Zorn». Maria Corti, la signora degli archivi, ricorda come le carte di Umberto Saba siano finite a Pavia all’interno del “Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei” avviato nel 1972. È uno dei capitoli del libro autobiografico “Ombre dal Fondo” pubblicato nel 1997 da Einaudi ne “I coralli” e ripubblicato quest’anno nella collana “Letture”.
Quasi un racconto. «Preso un rapido - narra Maria Corti - fui velocemente in via Due Macelli 19, dove viveva Giorni. Una casa curiosa: al piano dell’ingresso abitava Giorni con le sue tele. Si saliva una scala interna e si arrivava al piano dove aveva abitato Linuccia Saba. Si saliva un’altra scala interna e si arrivava al piano dello studio di Carlo Levi. Una sorta di graduatoria dei valori immortalata dalla pietra». E qui la sorpresa di trovare un tesoro: una miniera di carte da farci un museo. «Il pittore Giorni - continua la filologa - aperse due antine di un mobile ottocentesco e comparve la meraviglia delle meraviglie, quasi tutta l’opera del poeta nelle sue diverse redazioni, alcuni inediti, fogli e foglietti inseriti in rarissime stampe dei singoli testi e le altrettanto rare edizioni risalenti ai primi del Novecento di scrittori dell’epoca provenienti dalla Libreria Antiquaria gestita dal poeta a Trieste».
L’”antro oscuro” di via San Nicolò 30 era stato svuotato. Ma quell’armadio romano nascondeva molto di più. C’erano persino le lettere autografe del poeta. «Come mai? Non dovrebbero essere in mano dei destinatari?» chiede Maria Corti. «Linuccia le chiedeva in prestito per un’edizione mondadoriana dell’epistolario del padre e poi restituiva fotocopie» rispose Giorni.
Che fare di quel meraviglioso archivio? «Prima idea fu di telefonare al Comune di Trieste, al quale ovviamente davamo un diritto di prelazione; per di più Giorni voleva cento milioni, somma per quegli anni e per le nostre possibilità a distanza siderale» ricorda Corti. Il Comune di Trieste, guidato allora dall’avvocato Manlio Cecovini, rinunciò alla prelazione offerta. «Dal Comune di Trieste fu risposto che avevano ben altro per la testa, problemi di strade, restauri urbanistici; per carità, neanche parlarne. Noi si insisteva: “È il più grande artista triestino, oltre che uno dei più grande poeti italiani”» . Niente da fare. Il sindaco letterato Cecovini non fece una piega: «Sarà, non lo mettiamo in dubbio, ma Zorn può sognarseli cento milioni».
Senza Trieste, c’era i rischio di disperdere le carte di Saba in giro per il mondo. «Anche per Pavia sarebbe rimasto un sogno - continua Corti -. La somma faceva campeggiare sulle nostre facce solo dello sconcerto. Era rettore in quell’anno Alberto Gigli Berzolari, fisico umanista, studioso geniale, che si entusiasmò all’idea di un tale tesoro sabiano a Pavia».
E così venne messa in atto un’operazione a tenaglia. «Impose una divisione di compiti: io dovevo persuadere Giorni ad accontentarsi di ottanta milioni al posto di cento; lui sarebbe andato dal capo di gabinetto del ministro della Pubblica Istruzione a battere cassa, cioè a chiedere un contributo “straordinario” di ottanta milioni per impedire al fondo Saba di finire oltre Oceano. Il capo di gabinetto si lasciò persuadere, ma dichiarò: “La somma fra un anno”. “Entro un anno il fondo Saba è bel che sgusciato fuori dall’Italia”, rispose il rettore».
Che fare, allora? La soluzione fu trovata all’interno dell’Università di Pavia su indicazione del rettore Gigli Berzolari che suggerì alla Corti di sottrarre a ognuna delle Facoltà pavesi dieci milioni nell’assegnazione con l’impegno a reintegrarli l’anno successivo. «Così fu fatto - racconta Corti in “Ombre dal Fondo” -. Per alcuni mesi al bar dell’Università incontrai qualche collega di varie Facoltà che mi aggrediva: ma cosa diavolo avevo acquistato per costringere lui a un abbonamento di meno, a minori acquisti di libri. Non si era mai vista una cosa simile».
E così per le carte del poeta di Trieste fu scritto il lieto fine. «E Saba arrivò al Fondo. Volle andare lo stesso rettore con la macchina grande all’Università a prelevare a Roma gli scatoloni».
E come in tutte le storie c’è un’appendice che non sarebbe dispiaciuta al poeta. «Da poco erano giunti al Fondo i manoscritti di Saba e sistemati in un armadio-cassaforte, quando la televisione ci chiese di ricavarne un servizio. Si trattava del terzo canale - ricorda Maria Corti -. Le due ragazze comandate in quell’anno al Fondo andarono dal parrucchiere e si misero eleganti; il fatto di essere riprese da una telecamera le rendeva euforiche. Gli operatori della Tv le ripresero da destra e da sinistra e qualche volta, in un impeto di zelo, ripresero persino i manoscritti di Saba. Ma poi non se ne fece niente. Alla sede centrale decisero che il tema non era abbastanza attraente per le masse».