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Sarah Cosulich: «Tutto cominciò con la tesi spedita a Maurizio Cattelan al suo indirizzo di New York»

Sarah Cosulich: «Tutto cominciò con la tesi spedita a Maurizio Cattelan al suo indirizzo di New York»

La neodirettrice della prestigiosa Pinacoteca Agnelli di Torino si racconta: dall’agonismo da bambina agli studi all’estero, fino a Trieste nel cuore

TRIESTE È stata appena nominata direttrice della prestigiosa Pinacoteca Agnelli di Torino, ma la carriera di Sarah Cosulich nel campo dell'arte come curatrice e storica è lunga e si allaccia a diverse istituzioni di rilievo, non solo italiane. Nata a Trieste nel 1974, Sarah Cosulich è una grande appassionata di sport e da ragazza si è distinta in particolare nello sci.

Che infanzia ha avuto?

Sono stata agonista di sci e la mia vita, fino alla fine del liceo, è ruotata intorno agli impegni sportivi. Tutti i weekend impegnati con le gare, tutte le vacanze con gli allenamenti, durante la settimana palestra, corsa, nuoto. Per alcuni anni ho fatto anche scherma e pentathlon moderno. I cavalli sono stati la mia passione fin da piccola, mi allenavo anche la mattina prima di andare a scuola e facevo concorsi. Le mie amicizie erano quasi tutte sportive, mi sono divertita molto ma ho anche faticato e fatto tanti sacrifici: sveglia prestissimo, si studiava di notte, sui pulmini, dei veri salti mortali. In un’epoca globale e piena di stimoli da cogliere, come quella di oggi, non la vedrei più come una scelta possibile, ma per me è stata una vera palestra di vita. Mi ha insegnato la tenacia, l’autodeterminazione e mi ha dato sicurezza in me stessa. Certo non mi rimaneva molto tempo per pensare ad altro o per farmi domande esistenziali ma penso di avere recuperato molto velocemente dopo.

ARTISSIMA 2015

Quando ha scoperto che le interessava l’arte?

Al liceo, grazie alla professoressa di storia dell’arte Alessandra Agnelli, figlia di Arduino. Aveva un atteggiamento severo ma creava negli studenti anche motivazione e passione. Oltre ad aprirmi all’arte con le sue meraviglie e i dubbi, mi ha anche insegnato la voglia di farmi rispettare per le mie idee.

Che Trieste era quella in cui è cresciuta?

Una Trieste fortunata, sana, fatta di natura e di mare. Ma ho sempre respirato la sua dicotomia: da un lato la nostalgia per i tempi della cultura austroungarica di primo Novecento, e dall’altro la mentalità individualista legata al mantenimento dello status quo di un luogo geograficamente privilegiato ma con poca voglia di rischiare. Da questo punto di vista sono stati fondamentali i nostri genitori che, pur con enorme affetto e vicinanza, a diciott’anni hanno incoraggiato me e mio fratello a studiare all’estero e a proiettarci nel mondo. Ci hanno trasmesso il valore dell’indipendenza e il desiderio di migliorarci.

Ha studiato negli Stati Uniti: com’è stata quell'esperienza?

Privilegiata e fortunata in tutti i sensi. Ho scelto Washington DC perché lì viveva quello che poi è diventato mio marito e padre dei miei figli. Un’immersione nell’America vera, dove si studiava ma si lavorava anche, per rendersi il più possibile autonomi dai genitori. Sono dei valori che ho apprezzato e che cerco di trasmettere ai miei figli, insieme alla sicurezza in se stessi. Ho ottenuto la laurea in storia dell’arte con dei professori meravigliosi che stimavo, anzi che per me erano delle divinità. La formazione del liceo italiano mi ha insegnato la disciplina ma, a livello di pensiero laterale, gli stimoli del sistema americano sono stati impagabili.

Si è poi specializzata tra Berlino e Londra. È li che ha scoperto la contemporaneità?

Sì, a Berlino ci siamo finiti quasi per caso: era il 1997, un’epoca meravigliosa, divertente, piena di opportunità. Ho studiato e poi ho ottenuto il mio primo vero lavoro al Museo Ebraico di Daniel Liebeskind, a quel tempo un’architettura vuota e un incubatore di idee. Ho conosciuto anche un gruppo di artisti e curatori che avevano fondato uno spazio alternativo in un edificio sull’ex confine tra Berlino est e ovest. Si organizzavano mostre nei luoghi più impensati, ma anche incontri, conversazioni e si conoscevano persone interessantissime. Lì ho capito che volevo specializzarmi e nel 2000 mi sono trasferita a Londra dove ottenuto un master in critica d’arte contemporanea.

Qual è stato l’evento che ha segnato l’inizio della sua carriera da curatrice d’arte?

A Londra ho scritto una tesi sul rapporto tra il lavoro di Maurizio Cattelan e la tradizione della commedia dell’arte che comprendeva vari temi legati all’identità come la sfida all’autorità, la maschera, il doppio, la fuga. Ho pensato di cercare l’indirizzo di Cattelan che allora abitava a New York e gli ho mandato la mia tesi. Lui l’ha passata a Francesco Bonami che qualche mese dopo, appena nominato direttore della Biennale d’Arte di Venezia del 2003, mi ha chiamata a colloquio.

Ha lavorato anche in regione, per Trieste Contemporanea e per Villa Manin.

A Trieste esiste una realtà dell’arte molto speciale: una piccola galleria contemporanea in via del Monte che con passione porta avanti da più di trent’anni un programma sperimentale e d’eccellenza in cui il focus è l’Europa centro-orientale. Franco Jesurun e Giuliana Carbi mi hanno accolta a lavorare con loro nel 2002 e lì ho curato una mostra dell’artista polacco Pawel Althamer. Dopo la Biennale di Venezia, dal 2004 al 2008, sono rimasta in Italia grazie al progetto del Centro d’Arte Contemporanea di Villa Manin di cui ero curatrice. Voluto dalla giunta del governatore Illy e diretto da Bonami, in cinque anni abbiamo realizzato decine di mostre internazionali e uno spettacolare parco sculture.

Dell’incarico che ha ricoperto ad Artissima cosa la ha segnata di più?

Ho vinto il bando per la direzione della fiera internazionale d’arte e mi sono trasferita con tutta la famiglia a Torino. Quello di direttore di fiera è un incarico molto specifico che forma anche a livello manageriale, oltre che artistico-organizzativo. Ho viaggiato tanto, ho lavorato con la città e la politica, ho interagito non solo con artisti ma anche con collezionisti e istituzioni di tutto il mondo.

E poi ha diretto la Quadriennale di Roma.

Ho vinto un altro bando a cui ho partecipato con un progetto mirato allo sviluppo dell’istituzione attraverso iniziative di supporto dell’arte italiana. È stata un’esperienza molto formativa a contatto con tanti artisti e curatori del nostro paese. Abbiamo creato workshop, iniziative di promozione all’estero e poi, insieme a Stefano Collicelli Cagol, ho curato una grande mostra con 42 artisti al Palazzo delle Esposizioni di Roma. In piena pandemia siamo stati una delle poche realtà che è riuscita a organizzare una mostra di quelle dimensioni.

Attualmente è direttrice della pinacoteca Agnelli: che progetti ha in mente?

Il 25 maggio inaugureremo un nuovo corso per l’istituzione con un progetto che metterà in connessione la storica collezione – tra cui Canaletto, a Balla, Matisse, Modigliani o Manet - a un programma di mostre contemporanee. Apriremo con un progetto dedicato a Pablo Picasso e Dora Maar. Inaugureremo anche una mostra di Sylvie Fleury, artista svizzera che con un linguaggio pop e immersivo parla delle dinamiche del consumismo e della costruzione di desiderio. Inoltre, sull’iconica Pista 500 sul tetto del Lingotto, saranno presentate al pubblico anche una serie di installazioni all’aperto, dalla scultura al video a progetti sonori.

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Quando torna a Trieste quali sono i posti che le piace frequentare?

La campagna slovena dove mia mamma ha la sua casa e i suoi cavalli e la nostra casa al mare di Grignano. Questi sono i luoghi del cuore che vivo insieme ai miei figli. Stiamo in famiglia con parenti e amici ma, tornando solo due volte all’anno, non c’è mai abbastanza tempo per vedere tutti. Quando sono a Trieste vivo in uno stato di continua meraviglia, dal tramonto in piazza Unità a Miramare, dal Porto Vecchio alle passeggiate sulla Napoleonica e al mare di casa continuo a scattare fotografie come fossi una turista. Non riesco ad abituarmi alla sua bellezza e mi rendo conto che quando ci abitavo la davo per scontata.

Sogni nel cassetto?

Parlando di Trieste, quello di realizzare un grande centro per l’arte contemporanea multidisciplinare, magari nel Porto Vecchio, da mettere in rete con i musei, con le scuole, con le istituzioni d’eccellenza della città come quelle scientifiche. Non copiando altri modelli esistenti ma lavorando sulla specificità del suo contesto geografico e culturale. E poi, riguardo a me, mi piacerebbe avere il tempo per ritornare a fare un po’ di sport!

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