«Gli Ufo non cercateli più lassù nel cielo, semmai in mezzo al mare». Lo 007 privato di origini italiane che tiene gli occhi su uno dei porti più importanti del Mediterraneo fa lo slalom di fronte al taccuino del cronista. Ma è evidente che si riferisca al fatto che un buon numero di navi battenti bandiera russa si sono rese “invisibili” staccando il transponder, l’apparecchiatura che ne traccia le mosse sui mari del mappamondo grazie all’Ais, il sistema di identificazione automatico.
L’ha denunciato la società israeliana Windward che opera sul fronte del rischio marittimo: a Bloomberg dice di aver contato in una settimana a metà marzo 33 casi di navi che hanno disattivato l’identificazione automatica. Più del doppio dello standard dell’anno scorso: ma alla Cnn riferirà poi che i casi di spegnimento si sono talmente moltiplicati da esser «cresciuto del 600% rispetto a prima dell’inizio della guerra in Ucraina».
Così si diventa invisibili
Qualunque sia l’entità, è un boom. E dal quartier generale di questa équipe il responsabile Ami Daniel, ex ufficiale della Marina israeliana citato dall’Economist, indica che se avviene nel Mar Nero può dipendere dalla volontà di comandanti e armatori di essere invisibili agli occhi delle navi da guerra di Mosca, però questo comportamento viene ritenuto anche l’anteprima di un aumento delle pratiche di navigazione ingannevoli. Il dipartimento del Tesoro americano l’ha detto senza giri di parole.
Non è un segreto che al tracciamento navale non guardino più solo gli addetti ai lavori. Oleg Ustenko, braccio destro del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, è stato messo alla testa di una “squadra” che si chiama “Russian Tanker Tracking Group”: in tandem con esperti e esponenti dell’intelligence (probabilmente anche americani in modo non ufficiale) , cerca di puntare i riflettori sui traffici di gas e petrolio russi che servono a finanziare i costi dell’aggressione militare all’Ucraina. È quanto accaduto pochi giorni fa con l’improvviso dietrofront delle petroliere russe a metà strada nell’Atlantico, come rivelato dal New York Times: da quando è scattata l’invasione sono partite dai porti russi con oltre otto miliardi di barili di petrolio nelle stive e adesso, con l’altolà ufficiale della Casa Bianca, non possono più indicare come arrivo un porto statunitense ma si dicono in attesa di destinazione con la disponibilità a vendere ad altri il carico.
L’incrocio delle rotte
Gli analisti di Vortexa fissano lo sguardo sul passaggio dei carichi da nave a nave: un indizio di qualcosa che non va può essere l’incrocio fra le rotte di una nave vuota e una nave piena. Dove? Principalmente nel Mar Baltico e nella metà orientale del Mediterraneo. Si cita anche un vecchio trucco: lo scambio dei transponder. I contrabbandieri di petrolio l’hanno già fatto in acque del Sud Est Asiatico, soprattutto quelle malesi, per far avere alla Cina il petrolio iraniano.
Dietro le navi sparite c’è il contrabbando di petrolio per aggirare le sanzioni. Fortune cita la società di ricerca energetica Rystad Energy per segnalare la stima di quanto petrolio sia sparito dai radar. In cifre? Un fiume enorme di petrolio greggio diventato clandestino: si ipotizza possa trattarsi da 1,2 a 1,5 milioni di barili al giorno di export con “targa” russa.
Anche gli ecologisti di Greenpeace sono in campo: con il tracciamento di gasiere e petroliere russe mettono in piedi proteste nei porti e nelle città. Si chiama “Russian Tanker Tracker” ed è attivo su Twitter: nei primi 20 giorni dell’attacco russo, secondo Greenreport hanno identificato «almeno 148 “supertankers”», e 69 di esse erano dirette in Europa.
Vale la pena di fare una sottolineatura: prestando fede a quanto dichiarato a RadioUno da Alberto Rossi, segretario di Assarmatori, non si registrano scontri o conflittualità a bordo là dove sono presenti equipaggi misti di ucraini e russi. Eppure su 74mila navi mercantili nel mondo un marittimo su dieci è russo e uno su 25 ucraino: dunque le compresenze sono frequenti, e il rischio di portare sulle navi un clima di guerra era il terrore degli armatori di mezzo mondo.
L’oscuramento dell’identificazione non riguarda solo navi cisterna e cargo: vale anche per una parte dei megayacht di ultraoligarchi dell’ex Urss. In questo caso, probabilmente si vuol rendere un po’più difficile la vita agli investigatori che nei vari Paesi hanno sequestrato queste cittadelle extralusso galleggianti o anche evitare di diventare un bersaglio di eventuali attacchi da parte di commando filo-ucraini: molti degli oligarchi hanno fatto fortuna negli anni in cui si è improvvisamente squagliata la proprietà statale per passare, con metodi talvolta gangsteristici, nelle mani di una cricca assai vicina al Potere. Perciò non è del tutto campata per aria l’individuazione di questi simboli di ricchezza privatissima come espressione di quella nomenklatura che, rimpiazzando il Politburo sovietico, si è impadronita della Russia. Basti ricordare il caso del direttore di macchina del megayacht di un magnate russo che, subito dopo il via all’invasione, ha cercato di affondarlo alle Baleari in odio al proprio padrone che fabbrica armi per Putin.
La fuga dorata dei ricconi
«Mentre milioni di rifugiati ucraini fuggono dal loro paese devastato dalla guerra verso la Polonia e l’Europa occidentale, gli oligarchi russi fuggono su yacht di lusso e jet privati verso un’altra destinazione: Dubai». Lo segnala Forbes, la bibbia delle classifiche dei super-ricconi, sulla base delle informazioni di broker immobiliari come Serif Nadi Varli (con uffici anche in Turchia, altra scelta prediletta per chi fugge dai sequestri europei) . I magnati arricchiti sulle spoglie dell’ex Urss possono contare su alti standard di sicurezza e braccia aperte: le autorità emiratine hanno lanciato un programma di offerta dell’ombrello della cittadinanza in cambio di investimenti. Non c’è solo Dubai: pochi giorni prima che Andrey Andreevich Guryev, fra i principali produttori mondiali di fertilizzanti a base di fosfati, finisse nelle liste degli oligarchi sanzionati, il suo mega yacht da 107 metri aveva fatto tappa a Livorno. E adesso dov’è finito? A Tivat, Montenegro, gran protettorato nautico emiratino tramite il fondo sovrano in mano al giovane principe ereditario che regna su Dubai.
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