«Con amore e rabbia». Così gli attivisti di Extinction Rebellion firmano le mail e i comunicati. In queste due parole ci sono sia lo smarrimento emotivo che il bisogno di partecipare del nuovo ambientalismo contemporaneo, la ricerca di un ruolo dentro la società in crisi che vada oltre quello svantaggioso e inutile di Cassandra. La rabbia per una crisi climatica che sta spezzando il pianeta e le generazioni, l’amore che spinge a mettere in gioco corpi e idee per protestare. Si paragonano spesso alle suffragette, oppure ai Freedom Riders che negli anni ’60 viaggiavano mescolati tra bianchi e neri sugli autobus nel Sud degli Stati Uniti per combattere contro la segregazione. Se guardiamo alle risposte che ha dato in questi anni sui cambiamenti climatici la politica, questa generazione sta perdendo. La conferenza sul clima di Glasgow a novembre si è chiusa nello sconforto, nel 2021 le emissioni di gas serra hanno avuto l’aumento più brusco della storia. Ma se guardiamo alla società, alla cultura, alle nostre menti, il messaggio è passato e siamo già cambiati, e se è successo lo dobbiamo grazie a loro. Oggi abbiamo occhi diversi sulla crisi del clima e su quello che significa. Sul riscaldamento globale la scienza è solida e unanime da decenni, nel 1988 James Hansen tenne il famoso discorso al Senato in cui avvertiva la politica americana. Eppure solo alla fine del decennio scorso abbiamo iniziato collettivamente a visualizzare la cometa, per affidarci alla metafora del film Don’t Look Up, la politica ha iniziato a mettere il clima tra le priorità internazionali, a destinare fondi alla decarbonizzazione, a fissare obiettivi più stringenti. Cosa è successo? Nel 2018 una ragazzina svedese di nome Greta Thunberg inizia a scioperare da sola di fronte al Parlamento svedese, la prima goccia di quell’onda che è diventata il movimento Fridays for Future. Nello stesso anno, nel Regno Unito, Extinction Rebellion blocca per la prima volta Londra con la sua dichiarazione di ribellione. E negli Stati Uniti, alle elezioni di midterm, il Sunrise Movement spinge al Congresso una generazione di rappresentanti che avranno un’enorme influenza sull’elezione e sul programma di Joe Biden due anni dopo: Deb Haaland, Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Rashida Tlaib. La scienza aveva pronte da tempo le sue cartoline dall’apocalisse, però mancavano i postini. Questa generazione di attivisti ha fatto esattamente questo: ha cucito la climatologia con la società, recapitando lettere con ogni mezzo, in ogni modo, ogni giorno, con amore e rabbia. 

Nel febbraio di quest’anno un gruppo di attivisti italiani di Extinction Rebellion ha fatto quasi due settimane di sciopero della fame davanti al ministero per la Transizione ecologica. Chiedevano un incontro pubblico col ministro Roberto Cingolani per parlare della crisi. Dopo una serie di tentennamenti (c’erano la guerra, la crisi energetica) e molta ostilità, lo hanno ottenuto. Tra loro c’era Laura Zorzini, 27 anni, un corpo fragile, è finita in ospedale per quello sciopero della fame, ha rischiato di compromettere la sua salute. Eppure si sentiva meglio così che impotente di fronte a qualcosa di così grande come il collasso degli ecosistemi del pianeta dove dovrà vivere la sua vita adulta. «Questa campagna è nata dalla disperazione e anche da una richiesta di più democrazia, vogliamo partecipare, vogliamo sapere cosa succede, vogliamo che la nostra voce sia ascoltata». Hanno parlato con Cingolani davanti a decine di persone in presenza e migliaia collegate in streaming: «Siamo davvero l’ultima generazione a poter fare qualcosa per la crisi climatica?», gli hanno chiesto. Non hanno ottenuto (né probabilmente otterranno) la loro richiesta chiave: assemblee di cittadini col potere di decidere su una materia così importante. Per loro il 2022 sarà un anno decisivo di lotta. In Italia la militanza ambientalista è sempre stata diffusa e allo stesso tempo debole, ha ottenuto qualche vittoria storica (il referendum sul nucleare), molte sconfitte, è spesso ripiegata su una scala di battaglie iper-locali, soprattutto dopo il trauma della repressione violenta di Genova 2001. Poi è arrivata questa generazione di ventenni, senza cicatrici, senza colpe ideologiche da scontare, spesso figli di ambientalisti che avevano costruito sullo stile di vita quello che non riuscivano a ottenere in politica. Nel 2019 Fridays for Future ha portato centomila persone in piazza in Italia, in questo Paese non era mai successo che le proteste ambientali raggiungessero questi numeri. Sono diventati un attore politico ascoltato, che i presidenti del Consiglio cercano di blandire e tener buoni. A fine settembre Mario Draghi ha incontrato alla prefettura di Milano Greta Thunberg, Vanessa Nakate e una dei portavoce italiani, Martina Comparelli. La foto di quell’incontro fu il segno di un riconoscimento delle nuove generazioni come soggetto politico: pochi mesi dopo il Parlamento italiano ha inserito il rispetto dell’ambiente e della biodiversità tra i valori massimi della Costituzione, a vantaggio proprio loro: «Le future generazioni». 

In Italia, accanto ai movimenti più visibili e alle organizzazioni storiche (WWF, Legambiente, Greenpeace), c’è una galassia di realtà nuove, come United Mountains of Europe, progetto di cinque ragazze che percorrono le Alpi per raccontarne il declino ecologico, o The Climate Route, che questa estate farà un viaggio lungo mesi tra Europa orientale e Asia per documentare la vulnerabilità climatica e l’attivismo locale. In un contesto così variegato, articolato, di persone che hanno esperienze diverse e fanno cose diverse, c’è bisogno di ritrovarsi e parlarsi. Ci sono i social, certo, ma i social non possono tutto. E così è nato Ci sarà un bel clima: la scorsa estate, nella bellissima area collinare di Poggio Radioso, in Piemonte, una cinquantina di ecologisti italiani di ogni stile, rito e confessione si sono ritrovati, riuniti da questo piccolo collettivo spontaneo, per camminare, parlare e ascoltare. C’erano professori universitari, professionisti del mondo delle rinnovabili, fieri possessori di Tesla elettriche, rappresentanti di Fridays for Future, Extinction Rebellion e addirittura dei Verdi, c’erano i vecchi e i nuovi ambientalisti. Clara Pogliani, 32 anni, che di mestiere fa la storica dell’arte, era tra gli organizzatori di quell’evento. «Da anni seguo le tematiche climatiche e cercavo persone con cui condividerle. Ci sarà un bel clima è nato per questa idea di connetterci tra simili, è innanzitutto una comunità del sentire, composta da persone che vedono quello che sta succedendo e hanno voglia di imparare dagli altri. Ci siamo chiesti come potevamo contribuire e abbiamo pensato che questo mondo – soprattutto dopo la pandemia – avesse bisogno di una festa in cui ritrovarsi». Giovanni Ludovico Montagnani, 32 anni, ingegnere in elettronica nucleare, è un altro dei motori di Ci sarà un bel clima. È un tecnico, è un bravissimo divulgatore e si occupa di quello che fa il collettivo tra una festa e l’altra: informare, decifrare rapporti complicatissimi come quelli del Gruppo intergovernativo Onu sul cambiamento climatici (IPCC) o dell’Agenzia internazionale dell’energia. «Vogliamo essere un movimento basato sulla scienza, il messaggio ecologista ha bisogno di contenuti, di solidità, di conoscenza, anche per trovare una quadra e delle soluzioni alle diatribe che hanno sempre diviso l’ambientalismo italiano. Solo così si potrà incidere nella società più ampia». I prossimi due eventi saranno una passeggiata di tre giorni attraverso la Valle Anzasca, dall’ultima stazione del treno fino al ghiacciaio del Belvedere (alle pendici del Monte Rosa), per promuovere un avvicinamento lento e a basse emissioni alla montagna. E poi un festival di due giorni al rifugio Campogrosso (Vicenza) a tema letteratura e montagna. 

Dopo il primo incontro insieme, gli attivisti di Ci sarà un bel clima avevano scritto e condiviso un manifesto nel quale parlavano di consumo critico, di interventi urgenti e di decarbonizzazione ma anche di «rinascita» e di «speranza», che sono due parole chiave. Il racconto della crisi climatica tende a essere scoraggiante, la storia di un’apocalisse a rilascio lento che non potremo in nessun modo fermare. Invece la scienza, alla quale dobbiamo sempre tornare per raccontare questo momento storico e le possibilità che ci offre, ci dice soprattutto una cosa: c’è tempo e c’è modo per fermare le conseguenze peggiori dei cambiamenti climatici. Saremmo perduti se non avessimo strumenti, tecnologia e idee per un mondo nuovo. L’immensa fortuna è che invece ce li abbiamo. La scrittrice e ambientalista Rebecca Solnit ha scritto sul Guardian un decalogo per affrontare la crisi climatica con speranza. La cosa di cui abbiamo più bisogno ora, dice Solnit nel suo manifesto, è l’immaginazione. «Non solo austerità, come dicevano i vecchi movimenti ecologisti, ma immaginazione per liberarci dal veleno, dall’ingiustizia, dalla distruzione e dalla devastazione». E poi la capacità di riconoscere e ricordarci la meraviglia del mondo che stiamo provando a salvare: «Parte di quello per cui stiamo combattendo è la bellezza, e questo vuol dire prestare la nostra attenzione alla bellezza del presente. Se dimentichiamo per cosa ci stiamo battendo, rischiamo di sentirci perduti, amareggiati e tristi». Nelle parole di Rebecca Solnit c’è l’invito a raccontare lo stupore insieme alla perdita, per non farci travolgere dalla «solastalgia», l’emozione nera di questi tempi, la nostalgia per la casa perduta a causa del collasso. Ed è per questo che in Italia gli ambientalisti hanno scelto di ritrovarsi tra le valli e i sentieri più belli delle montagne italiane: non solo per avere sotto gli occhi la loro fragilità, ma anche per ricordarsi e ricordarci perché lo stanno facendo, il motivo per cui affrontano la lunga e a volte scoraggiante trafila quotidiana di petizioni, cortei, scioperi della fame, assemblee. Perché, dopo tutto, questo è un mondo bellissimo e sarebbe davvero un peccato perdere la possibilità di abitarci. Amore e rabbia, appunto.