Mentre il suo nuovo film esce nelle sale italiane, l’attore e regista americano Sean Penn, 61 anni, si trova sul confine polacco ad aiutare i rifugiati di guerra con la sua organizzazione umanitaria, Community organized relief effort (Core). Stava girando un documentario sull’invasione russa in Ucraina, quando è scappato a piedi verso la Polonia per mettersi in salvo allo scoppiare del conflitto. Un vero contrasto se si pensa che il cinema, per lui, è una scelta d’amore. L’ultima volta era successo con Il tuo ultimo sguardo, che aveva per protagonista Charlize Theron, l’attrice che ha amato e da cui è stato lasciato uscendo dalla relazione con le ossa rotte. Ogni scena era un omaggio di Penn alla bellezza dell’attrice sudafricana naturalizzata americana, nonostante il film (massacrato dalla critica) raccontasse la guerra terribile in Liberia, le ingiustizie del mondo, la sofferenza dei poveri e l’indifferenza dei ricchi, temi molto cari al due volte premio Oscar. Anche il nuovo lavoro, di cui è regista e protagonista, è guidato dall’amore. Stavolta quello per sua figlia Dylan, nata dal matrimonio con Robin Wright, che ha diretto nel film Flag Day al suo esordio da attrice. La storia è quella di Jennifer Vogel, la figlia del più grande falsario della storia Usa, raccontata da lei stessa nell’autobiografia Flim-Flam Man. Il padre, John Vogel (Penn), è un uomo che per quanto s’impegni nell’amare i figli (il maschio Nick è interpretato da Hopper Jack, l’altro figlio di Penn) non riesce a non mentire e a non fare male ai suoi cari. Quando Jennifer sarà finalmente riuscita ad allontanarsi da questa relazione tossica, John la coinvolgerà nel capitolo più doloroso della sua vita.
Dopo le critiche feroci che ha ricevuto il suo precedente film al Festival di Cannes, ha avuto paura a ripresentarsi in concorso?
È un rischio che va corso, perché i festival sono qualcosa di unico, Cannes in modo particolare. Serve per capire davvero lo scopo del lavoro che fai.
Cosa le ha insegnato quell’esperienza di fallimento?
Ho sempre pensato che tutti abbiano il diritto di dire anche cose brutte sul lavoro degli altri. Quello che mi fa stare male, quando succede, è che vedo il volto di tutti coloro che hanno lavorato con me per giorni, per mesi, e intercetto la delusione di tutti. Mi chiede se ci sono rimasto male per le critiche? Forse un minuto o due. Ricevere un pugno in faccia è una specie di rito di passaggio e allora lo prendo senza obiettare.
Il documentario sulla Siria e poi quello sul conflitto in corso, cosa cerca di fare?
Offro alle persone la possibilità di raccontare la verità anche se questa parola è spesso abusata.
Come motiva i suoi attori?
Ho un mio modo di farlo, a volte dico di sentire che quello che sto vedendo... potrebbe essere più eccitante. Devi essere innamorato degli attori con cui stai lavorando. Allora puoi essere gentile oppure essere duro. Solo così sentono di essere in buone mani.
Per la prima volta ha diretto anche sé stesso, ci sono vantaggi?
Hai un ego in meno con cui fare i conti, il tuo. Lo controlli di più, puoi mandarti al diavolo più facilmente. Vorresti fare un altro «take»? Puoi dirti da solo che non c’è più tempo!
Dicono che sui suoi set non sono ammesse distrazioni, che nessuno può guardare il cellulare, è così?
Il mio secondo film, Tre giorni per la verità, mi diede una lezione di vita e di lavoro. Ci fu qualcosa che non aveva funzionato per me. Ci ho messo un po’ a capirlo. Si trattava del fatto che un gruppo di attori gipsy era distratto perché voleva costantemente tornare dalle proprie famiglie. Bisogna vivere il film. E il set pure. Quando ho iniziato a stare sui set in cui gli interpreti hanno sempre il capo chino (mima gli occhi incollati sugli smartphone, ndr), un po’ di magia è andata perduta. Per questo sul lavoro non voglio distrazioni.
Negli ultimi due anni ha viaggiato molto. Ha avuto paura del Covid?
Mi sono vaccinato molto presto e ho grande fiducia nella medicina. Con l’organizzazione umanitaria siamo sempre in posti delicati, in Brasile come in India, luoghi in cui c’è una tale disperazione, che la nostra situazione, al confronto, è super fortunata. Sono attento e cerco di evitare i pericoli del virus, ma voglio anche tornare a una certa normalità, essere ottimista.
Con la sua associazione umanitaria era ad Haiti nel 2010, quando l’isola fu colpita dal terremoto. In questi giorni è impegnato di nuovo cercando di aiutare i rifugiati, stavolta sul confine polacco.
Abbiamo distribuito kit sanitari e cerchiamo di assistere anche economicamente chi scappando si è lasciato tutto alle spalle.
Dalle sue dichiarazioni stima molto Volodymyr Zelensky, qualche giorno fa ha addirittura invitato a boicottare la cerimonia degli Oscar, se non gli avessero dato la parola.
Mi ha colpito molto per il coraggio e la dignità. E poi è un uomo che è stato capace di unificare un Paese, qualcosa di straordinario che puoi fare solo se hai un grande amore.