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Trattare col nemico per battere i demoni

Trattare col nemico per battere i demoni

Macron, Scholz e ora anche Draghi si chiedono se sia lecito dialogare con Putin per evitare che prevalga la linea di Washington che rischia di infiammare il conflitto

La distanza che separa nella guerra in Ucraina gli americani e gli europei si è allungata, come era prevedibile, di un’altra pericolosa tacca. A Washington con l’invio al governo di Kiev di armi più sofisticate e micidiali, armi d’attacco, per l’ennesima volta viene sabotato esplicitamente il fragilissimo negoziato (prospettiva che gli americani considerano una sconfitta) e si comincia a sognare addirittura un ribaltamento dell’esito della guerra: non più russi indeboliti, impaludati, ma russi in fuga, e ucraini che riconquistano non solo le zone invase un mese fa ma anche il Donbass e perché no? la Crimea. Putin dunque umiliato, e, poiché i regimi non sopravvivono mai alle sconfitte, liquidato dalla Storia e dagli incubi del ventunesimo secolo. Dopo Saddam, Milosevic, Gheddafi, Ben Laden, i Califfi un’altra carta del corposo mazzo dei diavoli moderni scartata dal gioco.

Gli europei sono più consapevoli, per la prossimità alle malefiche conseguenze, della infernale potenza distruttiva che Putin può scatenare per vendetta o per riprendere il controllo delle operazioni. Gli americani pensano alla vittoria, gli europei (non tutti) pensano alla pace che seguirà. Ora dovranno rapidamente prendere una decisione complicata: allinearsi ancora alla strategia di Washington o seguire una diversa strada. Insomma: occorre mettersi al centro dell’arena entrando, come dicono i toreri , “nella culla delle corna”. Bisognerà bene che un giorno con Putin, o i suoi eredi, si discuta, non foss’altro per i nostri affari. Si dovranno riprendere relazioni sopportabili e umane con questa parte di Europa. Una bella ferita aperta, netta, guarisce. Ma non la invelenite!

La strategia telefonica di Macron, Scholz e ora anche di Draghi è l’abbozzo di questa svolta, qualcosa di più di una tentazione. È giusto trattare con il Diavolo? E se questo è necessario come farlo senza compromettersi e arrendersi al Male assoluto? È un dilemma aperto dal 29 settembre 1938, Monaco, faccia a faccia sciagurato tra democrazie pavide e aggressivi totalitarismi.

Ci può aiutare come bussola il celebre “Lungo telegramma” di George Kennan, vademecum della diplomazia dell’efficace “contenimento” della Unione sovietica staliniana. Seguiamo il suo schema. Se Putin è come Hitler allora bisogna evitare ogni trattativa e fare la guerra, non ci sono alternative; se è ome l’Unione sovietica bisogna applicare l’arte della pazienza e del logoramento, prima o poi crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni interne; se è come la Cina bisogna attirarla, farla partecipare al nostro mondo perché cambi. Con Pechino gli americani l’hanno applicata a partire del 1970 ma ora vogliono cambiarla. Nessuna formula infatti può essere eterna.

In questo mese terribile di aggressione russa si è andati molto avanti nel sovrapporre la maschera di Hitler alla faccia di Putin, non soltanto sui “murales” o sulle copertine dei settimanali. Si è deciso, anche nei discorsi di molti leader, che si intravede al Cremlino la reincarnazione dell’imbianchino viennese, che abbiamo a che fare con un totalitarismo e che l’aggressione criminale all’Ucraina non è una guerra di annessione o di intimidazione ma un tentativo di genocidio. Insomma in un Occidente che sempre vorrebbe vedere in lotta in modo manicheo le forze del Bene e del Male, forse per non interrogarsi sulle proprie debolezze, abbiamo già percorso, anche da questa parte dell’Atlantico, molto terreno per lasciarci alle spalle una logica politica e entrare nel regno del confronto con una natura definita diabolica. Abbiamo nostalgia di una “buona guerra” come fu appunto la seconda guerra mondiale o come è stata la guerra fredda per molti americani che oggi prendono le decisioni su quella contro Putin. Ma dopo aver demonizzato l’avversario, si coltiva la certezza di ciò che è il nemico, ovvero il contrario speculare di quanto siamo noi, e si è sicuri di poter indovinare che cosa vuole e il modo in cui intende ottenerlo. E così si commettono errori pericolosi.

Perchè entra in azione anche la sindrome di Monaco. Da quel settembre 1928 in cui l’inglese Chamberlain armato di bombetta e ombrello e il capitolardo francese Daladier arrivarono in Germania per trattare e stringere la mano al diavolo Hitler ogni negoziato con gli autocrati è diventato sinonimo di umiliante e soprattutto inutile capitolazione. Il marchio dell’infamia. Perché Hitler ne trasse soltanto la conferma che con quei vili personaggi disposti a sacrificare alleati e amici al proprio comodo si poteva continuare a praticare la tattica del bluff e della intimidazione. Ma questo non è un ultimo atto sempre scritto, entra in scena lo spessore degli uomini che interpretano il copione.

Oggi le opinioni pubbliche occidentali chiedono ai governi di garantire la sicurezza assoluta, cacciare i diavoli della scena internazionale e farlo utilizzando metodi morali che non li rendano simili a coloro che devono essere puniti. Tutte insieme sono richieste spesso incompatibili. Talora bisogna allearsi con un diavolo per eliminarne un altro, o affrontare sacrifici economici troppo elevati da risultare insopportabili, oppure i mezzi che si ritenevano sufficienti, l’isolamento, le sanzioni, si rivelano polvere innocua. sullo scenario della politica mondiale la possibilità di risolvere tutto con un colpo solo è molto rara.

Resta agli europei, di fronte a chiacchieroni e avventurieri, un’arma in cui sono maestri, la diplomazia. Anche se sembra abbiano esaurito ultimamente i loro talenti nei negoziati politici e burocratici interni e tra gli Stati della Unione. Attenzione: parlare con il diavolo di turno, al telefono o attorno a un tavolo, non è un obbligo morale anche se il risultato che ci si propone è fermare il massacro e ottenere un cessate il fuoco. È una strategia, una possibilità. Ma è un errore pensare che sia una soluzione magica, da impiegare quando tutto il resto è fallito. Nelle relazioni interazionali non bisogna davvero mai dire mai ma neppure dire sempre. Come la ipotesi della guerra la diplomazia deve esser giudicata dalle conseguenze che determina, il suo verbo è il condizionale, procede per continue ipotesi: se tratto il nemico in questo modo che cosa ottengo? Alternare bastone e carota a cosa porta? Fornire certi tipi di armi che effetti ha sul nemico e sugli alleati? Ma la diplomazia consente di correggere le valutazioni sbagliate, di ricominciare da capo. Crea condizioni, possibilità, può influenzare l’autocrate più che una minaccia, dargli lo spazio per non ripetere le brutalità che ha già commesso. A un certo punto del negoziato arriva la domanda per le democrazie: quando il compromesso diventa cedimento? Quando fermare la guerra è rinuncia vergognosa a interessi vitali? Ma bisogna arrivare a quel punto.

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