È accaduto a una giovane volontaria della Pubblica Assistenza di Lugo in provincia di Ravenna che si è vista respingere la richiesta di riprendere servizio sull'ambulanza
Subire molestie sessuali da un collega è un fatto traumatico, denunciarle richiede coraggio, affrontare un processo significa rivivere tutto da capo, nonostante questo, ottenere una sentenza di condanna per il proprio aggressore può non essere sufficiente per tentare di superare l'accaduto e ricominciare a vivere: una giovane volontaria della Pubblica Assistenza di Lugo in provincia di Ravenna si è infatti vista respingere la richiesta di riprendere servizio sull'ambulanza, perché «la vertenza col suo molestatore - un dipendente della struttura che al tempo guidava i mezzi - è ancora aperta». Come se per reintegrarla fosse necessario attendere tre gradi di giudizio.
«Quando è venuta presso il nostro studio legale non era convinta di sporgere denuncia - racconta Giovanni Scudellari, avvocato della giovane oggi ventenne - aveva paura, si è fatta forza e adesso non può che sentirsi delusa. L'aggressore è stato condannato a 3 anni di carcere, non solo le testimonianze della mia assistita sono state ritenute attendibili, ma anche quelle di sua madre e di un'altra donna che avevano subito atteggiamenti analoghi dalla stessa persona».
I fatti risalgono all'inizio dell'estate 2019, quando gli apprezzamenti a sfondo sessuale che l'uomo da giorni rivolgeva alla giovane erano degenerati in due episodi di palpeggiamento nelle parti intime a distanza di pochi minuti. Sconvolta, la ragazza si era rifugiata in uno spogliatoio e aveva chiesto aiuto alla madre e al fidanzato col cellulare. Le testimonianze di altre due donne e questi contatti telefonici hanno fatto parte degli elementi di prova che hanno portato a una condanna in primo grado da parte del Tribunale di Ravenna. Inoltre, la corte ha emesso un ordine di risarcimento da 15 mila euro per la vittima e di 5 mila per l'AUSL Emilia-Romagna, a sua volta costituitasi parte civile.
L'uomo, un sessantaduenne residente in provincia di Bologna, si autosospese all'indomani della notifica del procedimento nei suoi confronti, atto che gli impediva di avvicinarsi alla giovane. «Ma è un personaggio di un certo spessore, un sindacalista, e non voglio nemmeno pensare che dietro al rifiuto di reintegrare la mia assistita, ci sia una volontà di rappresaglia», considera l'avvocato Scudellari. Da parte della Pubblica Assistenza di Lugo, tuttavia, smentiscono che si trattasse di un pezzo grosso: «Siamo una piccola associazione di volontari e nessuno è effettivamente dipendente. Il soggetto in questione era dipendente dell'AUSL, ma dopo la denuncia non ha più frequentato la nostra sede», dice Giovanni Lizza, che ne è presidente.
Ma per quale motivo allora allontanare anche la giovane? «Fa parte del nostro statuto, quando c'è un contenzioso, il volontario non può operare - prosegue Lizza - non le abbiamo detto no, le abbiamo chiesto di avere pazienza finché la vicenda non sarà chiarita». Più chiaro di una sentenza di condanna in primo grado, secondo Lizza, ci sarà il processo di appello, una prospettiva data per certa anche dall'avvocato dell'accusa.
«In aula costui ha negato tutto e sono sicuro che ora farà ricorso - afferma Scudellari - il mio messaggio però non lo voglio rivolgere a lui, ma alla struttura: si devono solamente vergognare e chiedere scusa». Intanto, la vittima deve continuare a fare i conti con quelli che in sede processuale sono stati definiti «sintomi duraturi di un abuso subito», visibili nella sfera «fisica, emotiva e alimentare».
