foto da Quotidiani locali
UDINE. Quando i primi bimbi arrivati dalla Bielorussia gli raccontarono di come fosse cambiata la loro vita dopo il disastro di Chernobyl, Antonio Galvagna rimase profondamente colpito. Ma nulla a confronto di quel che vide con i propri occhi, nel novembre del 1992, una volta a Minsk: «Cose fuori dal mondo», racconta oggi che a 78 anni continua a essere il factotum del comitato Chernobyl di Moggio Udinese, fondato trent’anni fa per accogliere nelle case dell’Alto Friuli i bambini provenienti dalle aree più colpite dal terrificante incidente nucleare del 1986. L’attività del sodalizio moggese negli anni ha continuato a supportare le popolazioni di quei territori, concentrandosi negli ultimi anni negli aiuti per gli istituti che accolgono minori non accompagnati a Zawiercie, città che si trova a nord di Cracovia, in Polonia, e che negli ultimi giorni «è raggiunta da decine di ragazzini provenienti dall’Ucraina».
Del resto il confine con il Paese dell’ex Unione sovietica è a meno di quattrocento chilometri di distanza. A pochi giorni dallo scoppio della guerra Galvagna, accompagnato dal nipote Demetrio, vent’anni appena, è montato in macchina per consegnare all’istituto beni di prima necessità: «In particolare detersivi, che costano più del doppio rispetto all’Italia», racconta. In Polonia, lungo la strada, tante auto con targa ucraina: «Ci siamo plasticamente resi conto che iniziava l’esodo dai luoghi della guerra. E c’è anche la difficoltà della disinformazione: una mia conoscenza in Ucraina racconta che i parenti russi accusano i loro consanguinei di essere nazisti perché non vogliono lasciare il Paese. È frutto della visione distorta che offrono i media di Mosca».
Appena la scorsa estate da Moggio Udinese sono partiti oltre sette cubi di materiale: vestiti, generi di conforto, che Galvagna ha raccolto attingendo alla propria rete di solidarietà costruita negli anni. L’idea di accogliere i piccoli provenienti dalle zone colpite dal disastro causato dalla rottura del reattore 4 della centrale di Chernobyl maturò nei primi anni Novanta, «anche pensando a quanto aiuto, come friulani, ricevemmo dopo il terremoto del 1976. Vidi un documentario e rimasi talmente colpito da essere persuaso a mettermi in moto».
Arrivarono così, nel 1992, i primi 55 bimbi bielorussi: già dall’anno dopo ne sarebbero arrivati a Moggio Udinese cinque volte tanti, ospitati nelle case dell’Alto Friuli fino all’alba del Duemila. Il factotum (così si definisce oggi, dopo aver lasciato la presidenza del sodalizio) del comitato mantiene i contatti con qualcuno dei ragazzi passati da Moggio: «Un ragazzo di trent’anni, passato di qua quando era poco più che neonato, oggi vive e lavora a Gomel, la città bielorussa che è stata sede del primo round di negoziati tra rappresentanti ucraini e russi in cerca di un accordo: mi ha scritto su WhatsApp per dirmi che sente gli elicotteri alzarsi in volo ogni cinque minuti, “per andare dove tu sai”, mi dice. Anche i giovani bielorussi vivono momenti di angoscia: temono, infatti, di essere richiamati ed essere mandati al fronte, a combattere un nemico che tale non è nel percepito della popolazione residente».