Il processo al marito assassino. La sorella di Aycha aggrava la posizione di Abdfelfettah Jennati. La Corte d’assise boccia la richiesta della difesa: nessuna perizia psichiatrica per l’imputato
CADONEGHE. «Voleva ammazzare pure me. Nell’ultimo tentativo di far tornare a casa mia sorella, due giorni prima di ucciderla, mi chiamò al telefono “Vieni a Cadoneghe due giorni... ma vieni da sola, senza marito e bambini”. Sono sicura voleva ammazzarmi. Non ci andai, avevo paura di lui».
Sono le parole pronunciate da Monia El Aboui, sorella di Aycha El Aboui, la 31enne marocchina massacrata con tre coltellate al petto dal marito Abdfelfettah Jennati, 40 anni, dopo 12 anni di matrimonio e tre figli piccoli: era la sera del 24 novembre 2019.
E intanto la situazione processuale per l’imputato si complica: la Corte d’Assise (presieduta dal giudice Mariella Fino) ha bocciato la richiesta di sottoporre Abdfelfettah Jennati a una perizia psichiatrica come reclamato dalla difesa (gli avvocati Fabio Targa ed Elisabetta Costa).
La cognata accusa
Ieri terza udienza del processo davanti alla Corte d’Assise di Padova (presieduta dal giudice Mariella Fino).
Immobile, braccia allungate sul corpo e nascoste dietro al tavolo, l’imputato – collegato online con l’aula dalla casa circondariale Due Palazzi dove è detenuto – non ha mai alzato gli occhi. E non ha mai incrociato lo sguardo della cognata che, senza tentennamenti, ha ricostruito la triste esistenza della sorella accanto a un uomo ossessionato dalla gelosia e dall’egoismo.
Un uomo che voleva controllare ogni respiro della moglie: «Aycha aveva cominciato un bel rapporto con le amiche e a lui non piaceva» ha spiegato, ricordando che la chiudeva a chiave in casa anche per tutta la giornata perché voleva una donna sottomessa oppure, per spiarla, aveva messo il cellulare sotto il letto.
La figlia ha visto tutto
Poi, tra singhiozzi e lacrime, è andata con la memoria alla sera della tragedia ricostruita ai parenti di Aisha dalla voce della figlia più piccola: «Negli ultimi due giorni Aycha cercava di fare dormire la figlia più piccola nella camera con i fratelli, ma la bambina tornava sempre nella culla vicino alla mamma. Pure quella notte ci tornò dopo essersi svegliata. Indicando il petto, disse a noi parenti “Ho visto papà che ha dato un pugno alla mamma... non si muoveva più”. E lui appena vide la figlia, l’accompagnò in camera”».
Monia ha spiegato che la sua famiglia non vedeva di buon occhio il marito di Aycha («L’aveva sposata solo per il permesso di soggiorno»). E ancora: «Fino al 2017 abitavano in Calabria e lei trascorreva da noi parenti a Caltanissetta mesi. Poi cominciavano le pressioni dei parenti di lui e il marito la veniva a prendere».
Un giorno Aycha diede una chiavetta usb alla sorella: c’era un video che filmava il marito mentre faceva sesso con un’altra donna. «Lei mi disse di distruggerlo.... Non era felice e voleva divorziare. Sapevo che la maltrattava ma lei non voleva che entrassi nelle sue cose. Così quando lo denunciò per maltrattamenti e io fui sentita dai carabinieri, risposi che non sapevo nulla. Non era vero...».
Durissime le parole nei confronti dell’ex cognato: «È un attore, mai avuto problemi psichici. Faceva sempre vedere che era un bravo ragazzo e faceva la vittima. A mia sorella diceva: “Mi lasci ora che sto male e ho un tumore? Il dottore mi dice che sto morendo”. Non dava un soldo alla famiglia, costringendo mia sorella ad appoggiarsi alla Caritas».
Eppure lavorava ma «i suoi soldi li mandava al fratello in Marocco dove si è comprato una casa. Sono venuta a sapere che aveva estinto il mutuo “prima” (dell’omicidio). Mia sorella? Non ne sapeva nulla. Lei non aveva neanche vestiti ed era aiutata da noi parenti. Lui pensava solo a divertirsi.... Ora siamo noi a provvedere ai figli di Aycha».
Perizia respinta
In apertura di udienza sentiti i consulenti che si sono occupati del caso. Il medico legale Rossella Snenghi e la psichiatra-criminologa Anna Palleschi – le esperte del pm Marco Brusegan, titolare dell’indagine – avevano ribadito che l’imputato è capace di intendere e di volere. Del resto nella loro relazione avevano bollato come inattendibili le allucinazioni che Jennati sosteneva di avere, parlando di simulazione.
Al contrario, il professor Claudio Terranova (esperto della difesa) aveva osservato come fosse indispensabile una perizia anche alla luce di segnali di una malattia mentale. Niente da fare.
Fuori dall’aula Monia El Aoui ha commentato: «Mi aspetto giustizia. È solo un assassino. Nonostante la nostra religione lo vieti, mia sorella ha denunciato il marito che la trattava male». Di nuovo in aula il 17 marzo e il 6 aprile. Per il 13 aprile è prevista la sentenza.
