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Pier Paolo Pasolini, giovane "reggiano"

REGGIO EMILIA. «La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita», diceva Pier Paolo Pasolini, ossia «sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci».

Per noi comuni mortali, anche a un secolo dalla sua nascita, resta comunque difficile – se non impossibile – definire Pasolini senza fargli un torto. Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo e giornalista, oltre che linguista e semiologo, intellettuale e provocatore. La sua tumultuosa vita, inscindibile da quella che poi fu la sua geniale attività, iniziò il 5 marzo del 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare, ebbe tante case e insieme nessuna. «Hanno fatto di me un nomade – scrisse in età matura –. Passavo da un accampamento all’altro, non avevo un focolare stabile».

Uno di questi “accampamenti” fu Scandiano, dove abitò dal 24 giugno 1935 all’11 ottobre 1936. Mentre il padre era di stanza nella rocca, allora distaccamento dell’Accademia militare di Mondena, Pier Paolo Pasolini si muoveva quotidianamente dalla cittadina boiardesca a Reggio Emilia, dove frequentava il liceo classico. Nel testo “Un paese di temporali e di primule” racconta di viaggi che, pur portandolo alla città, erano bucolici. Ogni mattina saliva a bordo di «un trenino buffo, col tetto rotondo e con delle civettuole terrazzine agli estremi dei vagoni, piccoli, tozzi, in stile liberty». All’epoca Pier Paolo Pasolini frequentava la quarta ginnasio: «Ero ormai un giovinetto, scrivevo ancora poesie, impazzivo per l’Italia agreste e barbara, morivo di timidezza». Su quel buffo trenino liberty, dai cui finestrini vedeva «i campi volare», teatro di amori e di relazioni sociali come d’altra parte accade ancor oggi sui treni e sulle corriere brulicanti di giovani, cominciò a delinearsi l’inquieta e straordinaria personalità dell’autore. Il legame con Reggio Emilia, e in generale i reggiani, non si spezzò quando il padre si trasferì – insieme alla famiglia – a Bologna. In una società in cui «l’omologazione culturale ha cancellato dall’orizzonte le “piccole patrie”, le cui luci brillano ormai nel rimpianto, memorie sempre più labili di stelle scomparse», non sarà allora del tutto sbagliato, nell’anniversario della sua nascita, sgranare gli eventi che l’hanno – indissolubilmente – legato alla nostra terra.

PPP A SCANDIANO

Sulla casa di via Corti 8 a Scandiano, dove il poeta e scrittore visse con i genitori dal 1935 al 1936, da sei anni compare una targa. Vi si arriva seguendo il percorso turistico dedicato alla “Scandiano nuova” e davanti al portone si può ascoltare una breve biografia dell’intellettuale.

Ma è lo stesso Pier Paolo Pasolini a raccontare, a più riprese durante la sua vita, che quell’anno fu importante per la sua formazione: già dagli anni precedenti aveva cominciato a scrivere poesie, ma durante la quarta ginnasio, ossia durante il suo periodo scandianese, lo faceva ormai «al tavolino, con una piccola biblioteca appesa al muro». Fu in quell’anno, nei pomeriggi lasciati liberi dalla scuola, che iniziò poi a prendere lezioni di violino e si appassionò a nuovi poeti: «Non ho trascurato il dramma in versi, non ho evitato, con l’adolescenza, l’inevitabile incontro con Carducci, Pascoli e D’Annunzio, fase cominciata a Scandiano».

Nel ’35, poi, Pasolini dedica proprio a Scandiano alcuni versi che aveva intitolato “Caduta e Redenzione”. A scoprirli, anni e anni dopo, è stata Pinuccia Montanari: «In essi, con dolcezza, i ricordi di infanzia si schiudono: verso sera, di ritorno da Reggio, dove frequentava il Liceo Classico Spallanzani, davanti ai finestrini del trenino che collega ancora oggi Scandiano a Reggio, e poi davanti all’immagine della bellissima Rocca di Scandiano», che lui nella poesia chiama “castello”.

L’AMICIZIA CON LUCIANO SERRA

Per uno strano gioco del destino una delle vitali amicizie di Pier Paolo Pasolini fu quella con un reggiano conosciuto però a Bologna: Luciano Serra.

Entrambi frequentarono il liceo classico di Reggio Emilia, eppure si conobbero al Liceo Galvani di via Castiglione, all’ombra delle due torri. «Nell’autunno del 1936 – scrive il poeta Luciano Serra, ne “Le Partie di Pasolini” – Pier Paolo da Scandiano venne a Bologna, e io contemporaneamente venni a Bologna da Reggio (per trasferimento di mio padre vincitore di un concorso postale), e non ci conoscevamo ancora».

Il 20 agosto del 1941 Pasolini scrisse a Serra chiedendogli un favore: «Riscrivo con la traduzione “El nini muart” (“Il bambino morto” in “Poesie a Casarsa”, ndr), perché, tu, Luciano lo traduca in reggiano e me lo faccia vedere».

E nel «pulviscolo d’oro della giovinezza» Pasolini convinse alcuni amici, tra cui lo stesso Serra, ad andare una sera sulle colline bolognesi, «scalare calanchi e danzare poi al sole nascente». Era il 1942. «Non fu un rito paganeggiante – ricorda in un suo scritto Serra – ma l’espressione della gioia d’esistere. Eravamo in guerra, nella notte vedemmo l’incrociarsi delle lamine di luce della contraerea, e ignorammo la guerra. Eravamo il passato, il present e, il futuro: così, almeno, credevamo».

La loro amicizia durò tutta la vita alimentandosi di confronti aperti, collaborazioni letterarie e scambi epistolari. Fu proprio a Serra che, in una cartolina del 1949, Pasolini rivelò la sua omosessualità: «Disse che più della metà dei suoi versi li aveva pensati o scritti in treno – ricorda il poeta reggiano – e in una cartolina dell’11 aprile 1949 mi rimprovererà di non andare a trovarlo dicendo che un diavolo teneva costantemente un bastone tra le ruote del treno che avrebbe dovuto portarmi a Casarsa. Era la missiva in cui ribatteva alle mie obiezioni sulla omosessualità di Penna e di Gide che lui invece ammirava incondizionatamente, e poteva apparire come un’ammissione di quella diversità che nessuno di noi conosceva e di cui venimmo a sapere pochi mesi dopo». Sempre grazie a Serra scopriamo l’amore di Pasolini per lo sport, «la più pura, continua, spontanea consolazione», e la mente non può che volare alla storica partita di calcio disputata nel marzo del 1975 sul campo del parco della Cittadella di Parma, poco distante da Reggio. Ad affrontarsi due squadre molto particolari: da una parte la rappresentativa della troupe di “Salò o le centoventi giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini, dall’altra quella di “Novecento” di Bernardo Bertolucci. Due film girati negli stessi giorni e a pochi chilometri di distanza – il primo tra Bologna e Mantova, l’altro tra Parma, Cremona, Reggio, Mantova e Modena – e che faranno la storia del cinema.

IL 7 LUGLIO 1960

Pier Paolo Pasolini non partecipò alla manifestazione organizzata dalla Cgil reggiana il 7 luglio del 1960, giornata in cui le forze dell’ordine uccisero cinque civili inermi, tutti operai iscritti al Pci: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, poi detti “i morti di Reggio Emilia”.

Ma i fatti arrivarono alle sue orecchie e lo colpirono al punto da spingerlo, prima, a partecipare al convegno indetto a Reggio dall’Unione goliardica italiana, il 20 luglio 1960, dedicato all’unità antifascista degli intellettuali, e poi a parlare della strage su “Vie Nuove” nell’agosto dello stesso anno. Prima di mettersi a scrivere ascoltò il disco della carneficina reggiana: quello registrato, cioè, dal commesso di un negozio di tessuti che si era portato in piazza il registratore per registrare il comizio e, invece, aveva finito con il registrare l’agghiacciante sparatoria. «Io mi auguro – sono le parole di Pasolini – che simili carneficine non si ripetano più, mai più, nella nostra vita, che è stata tutta un’esperienza di carneficine: e spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo. Che è il più terribile – e anche profondamente bello – che abbia mai sentito». E poi spiega: «Nato com’è dal caso, semplice riproduzione di una “materia pura”, suoni, urli, spari, rumore, la sua bellezza anche estetica ha momenti sublimi. Perché mai, nemmeno per un istante, la suggestione estetica si distacca dal suo contenuto».

La conclusione è un grande appello alla non violenza, che oggi – guardando a ciò che sta accadendo in Ucraina – è quanto mai attuale: «Io, per me, sono alieno dalla violenza: e spero, lo ripeto, che mai più si debba scendere in piazza, a morire. Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze e di menzogne crollerà: com’è crollata la legge-truffa, com’è crollato il governo Tambroni».

LA MITICA SERATA AL CAPITOL

Esattamente dieci anni dopo, la figura di Pasolini si intrecciò all’esperienza insieme culturale e politica del Cineforum Al Capitol, nata nel 1968 nella sala parrocchiale di Regina Pacis dall’idea di un gruppo di ragazzi «di diversa formazione e diverso orientamento culturale e politico» che agivano insieme per passione del cinema e della libera discussione.

In questo contesto, nel febbraio del 1970, Pasolini portò a Reggio Emilia la sua “Medea”, presentandola davanti a una sala gremita, con centinaia di persone assiepate in ogni angolo, mentre, all’esterno, gruppi di destra tentavano di sfondare le porte. La proiezione del film – tutto sommato neutro all’interno della poetica pasoliniana, per di più con la Callas come attrice – fu anticipato da una campagna di contestazione organizzata dalla destra, con tanto di volantinaggio e attacchi a Don Dino Fontanesi, parroco di Regina Pacis, «che aveva accettato di promuovere nel cinema di proprietà della parrocchia un ciclo di proiezioni di film di Pier Paolo Pasolini, cineasta la cui amoralità e il cui credo marxista sono a tutti noti». La calma di Pasolini nell’affrontare il tumulto è diventata proverbiale. Quando i contestatori iniziarono a premere contro le porte, producendo fracasso e anche spavento, Pasolini fece uno scatto e disse, serafico: «Beh, se bussano, fateli entrare». Applausi.

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