Domani al Forum Monzani la presentazione del libro “Crepacuore” storia autobiografica di un periodo molto difficile della sua vita
«Io dovevo renderlo felice. Dunque il giorno del suo compleanno mi venne in mente il regalo che più desiderava. Mi infilai nella doccia mosaico del bagno con uno spazzolino da denti e l’anticalcare ed eliminai il suo incubo: pulii ad una ad una le fughe nere tra un una microtessere e l’altra. Dopo due ore di lavoro senza sosta misi un fiocco rosso sul piatto della doccia. Non lo avevo mai visto così felice».
Siamo a pagina 77 di “Crepacuore” (edizioni Rizzoli), libro scritto da Selvaggia Lucarelli considerata una professionista della comunicazione e della critica senza peli sulla lingua, sempre un po' sempre sopra le righe. Ma capace di incassare tanto il complimento quanto la feroce recriminazione. Una donna apparente dominante e assetata di vita che però per anni ha sottovalutato le pieghe fragili incise da una madre insoddisfatta – peraltro come tutte le donne della sua famiglia - che ha rinunciato ad avere una vita propria inchinandosi all’altare del padre. Selvaggia no. Del resto… un nome, una garanzia. Lei ha preso tutta un’altra strada, l’indipendenza, ma la sindrome dell’anguilla, che la riporta sempre alle origini, il terrore dell’abbandono seppur trascurato, ha continuato a torturarla trovando terreno fertile in una relazione malata, di pura dipendenza. Dipendenza reciproca da un uomo rivelatosi (con il senno di poi) gretto e anaffettivo, egocentrico, immaturo e infelice. E pronto a scaraventare tutta la sua ossessione sulla compagna di turno. “Crepacuore” che sarà presentato dalla stessa autrice in presenza al Forum Monzani di Modena domani alle 17.30 è puro coraggio. Coraggio di una madre amorevole – di Leon, bambino adorabile e maturo per la sua età avuto dal precedente matrimonio - che Selvaggia, ha ammesso di aver posto in secondo piano per ben quattro anni di tira e molla pur di soddisfare le esigenze un uomo di cui l’identità non viene mai svelata.
E che dopo un primo classico idillio iniziale, l’ha annientata umanamente e professionalmente. Selvaggia si trasferisce Milano nella casa del nuovo fidanzato, ossessionato dalla pulizia, dai colori smorti – “non portare arredamenti e non fare entrare alcun colore in casa mia” – accetta addirittura di far dormire il piccolo Leon due piani sotto la loro camera da letto in un luogo di cui lui aveva paura. Un luogo pericoloso per un bimbo così piccino. “Leon avrebbe dormito nell’area relax, davanti alla piscina, e là sotto aveva paura”, scrive Lucarelli. Per poi aggiungere a pagina 74: «Faccio ancora fatica ad ammettere che la felicità di mio figlio, la sua sicurezza persino, erano le cose più importanti solo in quei rari momenti in cui pensavo di avere messo al sicuro la mia relazione». Non so quanto nel jet set televisivo tanto frequentato da Selvaggia le persone se ne siano accorte. Improvvisamente spenta, dimagrita, poco affidabile dal punto di vista professionale, con i suoi bei capelli che per lo strazio cadevano inerti nel lavandino: ecco l’effetto di una dipendenza affettiva.
Terrificante, come tutte le dipendenze. Una droga che quando non la trovi più provoca un’astinenza dolorosissima che non esclude pensieri di morte. Ma “Crepacuore” è un libro di speranza perché dal pozzo è possibile uscire, con tutta la fatica del mondo e le ricadute del caso. La rinuncia alla droga affettiva fa crollare il tuo mondo, per riprendersi occorre un percorso di sofferenza e tenacia che Selvaggia ha vissuto in ogni sua tappa. Per poi risorgere come la fenice dalle sue ceneri, più determinata che mai nel farsi perdonare dall’uomo più importante della sua vita: Leon. Ora Selvaggia da sei anni è fidanzata con un giovane cuoco parecchio più giovane di lei, è felice, il lavoro l’ha riportata in auge.
«Con le droghe funziona così – scrive lei - a ogni buco il senso di benessere ha una durata sempre inferiore. Tu continui però a bucarti (e parliamo di un buco affettivo, emozionale, ndr) nell’illusione di provare l’estasi della prima volta. È quello che qualcuno ha definito “speranza distruttiva”: vivevo per pochi attimi di appagamento, in una quotidianità mortificante. Un momento comune delle dipendenze è che da un certo punto si conosce la verità”. Ma non basta perché Selvaggia finisce in preda ad una sindrome abbandonica invalidante ed ossessiva. Molte donne (e uomini) crediamo abbiano vissuto un’esperienza simile. L’autrice in tutto questo dolore lascia un messaggio convinto di speranza: se ne esce. Ma lottando come leoni.