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Famiglia in fuga dall’Eritrea, la sua salvezza è Mantova

Famiglia in fuga dall’Eritrea, la sua salvezza è Mantova

L’odissea di tre fratelli, della madre e un nipotino di 6 mesi raccontata da due scout Il Paese dilaniato dalla guerra: dopo gli studi rischiavano di essere arruolati a forza

MANTOVA.Si dice che ormai viviamo in un mondo globalizzato. Nel corso degli anni, grazie ad internet e alle varie piattaforme social, si sono accorciate le distanze geografiche, rendendo possibile una connessione, diretta e in tempo reale, con la maggior parte del mondo. Eppure, sembra sempre più difficile trovare la forza di uscire dalla propria bolla e cercare di confrontarsi con realtà diverse, toglierci il paraocchi e vedere il mondo nella sua interezza e complessità, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla nostra vita che, per quanto ci riservi sempre degli ostacoli, ha il privilegio di essere vissuta in un Paese in pace.

L’indifferenza ci scorre densa nelle vene, abbiamo tutti i mezzi possibili per interessarci e informarci, ma ci sembra sufficiente leggere la testata del giornale online o i titoli di qualche post che ci capita sul feed di Instagram o Facebook, indignarci un po’ e poi metterci il cuore in pace, dicendo di aver fatto la nostra parte. Quando, però, queste realtà vengono a bussare alla porta del nostro Paese noi, insieme a tutta l’Europa voltiamo prontamente le spalle.

Siamo Caterina e Jacopo, abbiamo diciotto anni e siamo scout del gruppo Mantova 7. Grazie al servizio svolto con l’associazione “Con vista sul mondo”, abbiamo avuto l’opportunità di conoscere una famiglia fuggita dall’Eritrea. È di soli cinque membri, ma racconta la realtà di un intero popolo, dominato dalla paura, da incertezze, ma anche da determinazione e grandi sogni.

La loro storia non ci ha lasciati indifferenti, ci ha spinti a scrivere questo articolo, per condividere con quante più persone possibili la loro esperienza e la disastrosa guerra che si sta svolgendo in Eritrea e in Etiopia, nella più totale indifferenza dei media. Qui abbiamo raccolto le testimonianze del viaggio che ha portato questa famiglia a lasciare la propria casa in Eritrea, fino ad arrivare in Italia, a Mantova, attraverso un corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio.

L’Eritrea è un Paese, da anni, dilaniato da conflitti interni e con gli Stati confinanti; è affidato a un governo autoritario che controlla e influenza pesantemente la vita dei cittadini, in un clima di paura e povertà.

la fuga

Il primo a lasciare casa è stato Thomas, il figlio più giovane. Ha approfittato dell’apertura dei confini per un mese, nel 2018, per raggiungere in autobus l’Etiopia, dove si rifugia la maggior parte di coloro che lasciano l’Eritrea in cerca di un futuro migliore. Rimanere a casa avrebbe significato dover interrompere gli studi per essere arruolato in modo permanente nell’esercito. Tutti i ragazzi eritrei e tutte le ragazze eritree, per concludere il ciclo di studi secondari, devono prestare un anno di servizio militare, e chi non riesce a superare gli esami viene arruolato a vita.

La seconda a partire, dieci mesi dopo, è stata Soliyana, con il figlio di sei mesi sulle spalle. Anche lei voleva evitare il servizio militare. I confini erano già stati richiusi ed erano sorvegliati. I soldati non volevano farla passare. Così, dopo aver aspettato a lungo, non conoscendo la via, si aggregò a un gruppo di persone che tentava di passare di nascosto. Ci riuscirono. Però la strada per arrivare in Etiopia era ancora lunga. Dopo tre ore sotto il sole cocente, tra salite e discese, con Even sulle spalle, Soliyana è arrivata in un punto dove passavano i pullman e così ha raggiunto il fratello Thomas, a casa della zia.

Non tutti riescono a passare senza problemi. I militari sorvegliano costantemente il confine eritreo e chi viene catturato mentre cerca di fuggire viene scortato a piedi fino a un campo di prigionia e lavoro. Lì le persone vengono trattenute a tempo indeterminato: si tratta di campi all’aperto, circondati da militari, in cui sono stipate fino a 5mila persone, nutrite da tre porzioni di lenticchie al giorno. L’unico modo per farsi rilasciare è la certificazione di una malattia o di una particolare condizione fisica.

Nel settembre del 2019 è partito anche l’ultimo fratello, Temesgen, rimasto fino ad allora per concludere gli studi, che l’avevano portato a lavorare come maestro in una scuola vicino alla regione del Tigray. Per raggiungere il posto di lavoro doveva percorrere in bicicletta due ore di strada, molto pericolosa perché vicina al confine. Il suo stipendio era molto basso, a malapena sufficiente per mantenersi. Giunto anch’egli alla conclusione che sarebbe stato meglio uscire dall’Eritrea, partì per raggiungere i fratelli in Etiopia dove si delineava una prospettiva migliore. Anche se, come rifugiati, non avrebbero potuto lavorare o studiare come desideravano. Almeno, però, potevano vivere senza la costante paura di essere costretti a combattere. Sapevano che non sarebbero potuti rimanere per sempre in Etiopia, perché anche lì la situazione era instabile.

La guerra interetnica è scoppiata esattamente un anno fa nell’Etiopia del primo ministro, e paradossalmente premio Nobel per la pace 2019, Abiy Ahmed. I minoritari ribelli tigrini alleati con quelli oromo della maggiore etnia del paese, ormai lanciati alla conquista della capitale Addis Abeba facevano scattare lo stato di emergenza, tra le denunce dell’Onu sugli orrori perpetrati da entrambe le parti.

Infine, per l’Etiopia è partita anche Tsige, madre di Temesgen, Solyana e Thomas. Lei è riuscita a passare regolarmente, nonostante alcune difficoltà. I documenti necessari all’espatrio li avrebbe dovuti firmare il marito, assente da dieci anni, in quanto malato in gravi condizioni in Svezia, anche lui fuggito dalla vita militare. È stato necessario trovare dei testimoni che affermassero che era lei a mantenere da sola la famiglia e farsi inviare dalla Svezia la documentazione sanitaria del marito che ne confermasse l’infermità.

Finalmente anche Tsige passò il confine. In Eritrea la madre aveva lavorato un po’ come infermiera, in una clinica gestita da suore, prima che venissero chiusi tutti i centri religiosi. La casa, in cui abitava la famiglia, aveva un affitto basso perché era proprietà di parenti. Ciò le permetteva di mantenersi con il poco che riceveva dallo stipendio statale. Tutti speravano che in Etiopia avrebbero avuto più possibilità. C’era molta buona volontà ma poco di concreto. Essendo rifugiati, per loro l’unica possibilità di trovare impiego era lavorare in nero, perché non disponevano dei documenti necessari. Non potevano andare in Svezia perché il padre era malato in ospedale. Inoltre, essendo tutti i figli maggiorenni, non c’era per loro la possibilità di entrare in quel Paese.

L’arrivo a Mantova

Due mesi dopo l’arrivo della madre in Etiopia, grazie a un corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, per interessamento delle parrocchie del centro di Mantova, Temesgen, Solyana, Thomas e il piccolo Even sono partiti dall’Etiopia il 13 novembre 2021, per giungere in Italia. Si sono lasciati alle spalle alcuni amici in Etiopia e altri, divenuti militari, in Eritrea. Alcuni loro amici erano fuggiti, tentando la strada per la Libia, altri sono morti nel percorso verso il Sudan, altri in mare. Gli ultimi rimasti nel Corno d’Africa stanno aspettando che i parenti in Canada e negli Stati Uniti li portino via.

basta con la paura

Ora Even, Solyana, Temesgen, Thomas e Tsige stanno bene e sperano di riuscire a crearsi un futuro e rendersi indipendenti. Per loro il dono più grande ricevuto è essere riusciti a rimanere uniti in famiglia. Nonostante sentano la mancanza del proprio Paese d’origine, la tranquillità e la consapevolezza di non dover avere paura di vivere è per loro un sollievo. Qui possono iniziare di nuovo la loro vita, scrivere una nuova pagina, anche se le difficoltà non cessano: si ritrovano in un ambiente completamente estraneo, a partire dalla lingua fino alla cultura. Inoltre, i titoli di studio conseguiti in Eritrea non è certo che vengano riconosciuti come validi e consentano di continuare gli studi. Le loro vite e la loro storia sono il riflesso di una realtà che appartiene a migliaia di persone che non sempre riescono a raggiungere la propria meta, perché il vero viaggio non comincia quando salgono sull’aereo o sul barcone che porta verso le nostre sponde, ma comincia nel momento in cui lasciano la propria casa, per accingersi ad attraversare confini e deserti, spinti dal desiderio di una vita nuova e libera.

Queste realtà, poco rappresentate dai media, sono conflitti nascosti che si consumano nel silenzio del resto del mondo. Di essi le grandi potenze, che li definiscono solo come «guerre etniche e religiose», spesso sono complici.

Allo stesso tempo, chi riesce a sfuggire e arriva alle porte dell’Europa si ritrova in una società spesso restia all’accoglienza e alla vera integrazione, sia a causa della mala gestione di tutto il sistema che dovrebbe garantirle, sia perché ormai il tema dell’immigrazione è diventato una delle colonne portanti della propaganda politica, utilizzato spesso impropriamente e in maniera semplicistica e superficiale per trovare un nemico comune su cui poter scaricare la colpa di tutti i problemi.

Oggi possiamo affermare di avere la possibilità di ricercare autonomamente la verità e costruirci un’opinione nostra, al di là delle rare notizie che si sentono al telegiornale e agli slogan propagandistici che invadono la scena politica. Si tratta di trovare la volontà di scavare più a fondo per avere una visione più completa di cosa voglia dire vivere nel mondo al di là della soglia di casa nostra

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