Con un’ironia involontaria il Consiglio di Stato, mettendo fine all’annoso contenzioso sulle concessioni balneari, ha stabilito come termine ultimo di validità il 31 dicembre 2023, dopodiché scatteranno le liberalizzazioni perché «è estremamente prezioso garantire ai cittadini una gestione del patrimonio nazionale costiero e contribuire in misura significativa alla crescita economica e, soprattutto, alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita».
Nemmeno il tempo di leggere il dispositivo dell’ordinanza e il proprietario del marchio Red Bull, l’austriaco Dietrich Mateschitz, si è comprato nel golfo di Trieste un porto, un’isola, alcuni chilometri di litorale per un totale, si dice, di 9 milioni di euro. Il «bibitaro», come l’ha soprannominato il circo della Formula Uno dove ha appena vinto il titolo mondiale con l’olandese volante Max Verstappen, è appassionato anche di vela. E, a 77 anni brillantemente portati, ha capito che per vendere le sue bevande energetiche deve puntare sulla performance sportiva.
Così, ora, va alla conquista della Coppa America e acquista un pezzo d’Italia dove installerà la propria base. Farà rinascere Alinghi, la barca di Ernesto Bertarelli in una joint venture alpina austro-elvetica, per cercare di battere i neozelandesi nella massima e più antica competizione velica del mondo. E per riuscirci non ha scelto un luogo qualsiasi, ma la scuola di vela «Tito Nordio» (da quei moli è uscito il primo timoniere italiano di Coppa America Mauro Pelaschier), il cantiere, la Marina Monfalcone e l’Isola dei bagni (quest’ultima per metà ex demaniale e per metà già di un fondo cinese da cui Mateschitz l’ha rilevata per 4 milioni di euro). «Herr Red Bull» acquistando ciò che un tempo era di tutti, l’Isola dei bagni è appunto in parte proprietà del demanio, ha associato la sua immagine anche alla tradizionale Barcolana - 2 mila barche in regata - ossia la festa della vela del Mediterraneo. E questa sì è una rendita di posizione!
È sufficiente l’«abbordaggio» a Trieste per comprendere come l’Italia, in particolare tutto ciò che a che fare col turismo fiaccato dalla crisi Covid, sia in svendita; e come tra due anni i nostri litorali, nonostante le mobilitazioni dei gestori degli stabilimenti, saranno a disposizione del miglior offerente. Questo ulteriore colpo al patrimonio nazionale ha un nome e una causa: il nome è «direttiva Bolkestein» e riguarda anche ambulanti e tassisti che tra poco saranno spazzati via; la causa è la miopia dell’eurocrazia che non riesce a distinguere tra le specificità dei vari Paesi. Le concessioni balneari da sempre sono il modo in cui l’Italia organizza il turismo del mare. È vero che lo Stato incassa poco direttamente da questi permessi (sono circa 25 mila e fruttano 130 milioni all’anno); ma è anche vero che gli stabilimenti delle spiagge sono il primo motore di un settore economico che invece produce per l’erario incassi record. L’Italia ha inventato il turismo dei bagni - i primi furono costruiti a Livorno nel 1781 da Paolo Baretti e di quell’epoca resistono ancora i «Pancaldi». E alcuni sono vere opere d’arte, come il «Bagno 48» a Viareggio, illustre esempio di Liberty.
Il contenzioso che si è aperto consiste in questo: se l’arenile è in concessione, gli stabilimenti, i ristoranti e le attrezzature realizzate dalle imprese sono e restano di proprietà privata? Partendo da tali considerazioni l’Italia ha rinviato anno dopo anno la Bolkestein, subendo peraltro varie e onerose procedure d’infrazione. Fino al recente pronunciamento del Consiglio di Stato. Matteo Salvini con la Lega ha ripetuto che si troverà una soluzione, non si pronuncia invece il ministro del turismo Massimo Garavaglia, anche lui leghista; ma la direttiva va cambiata in Europa e i principali gruppi turistici europei fanno muro.
Il nostro mare è un ottimo business. Conta circa 18 mila aziende che gestiscono 3.800 chilometri di spiagge. Secondo stime abbastanza attendibili, lo Stato con le concessioni preleva il 6 per cento del fatturato che perciò si aggira sui 2 miliardi di euro. Il fondamento europeo secondo cui non ci sarebbe concorrenza - si prenda a esempio la Riviera romagnola - è nei fatti sbagliato. La competizione tra gestori è infatti altissima. Eppure andrà a finire che un pezzo d’Italia sarà messo all’asta.
A questo proposito è emblematica la storia dei bagni Liggia di Genova (al proprietario Claudio Galli è stato sequestrato tutto), finiti sott’inchiesta dalla procura per abusivismo. Ora sono stati dissequestrati dal giudice delle indagini preliminari, ma finiranno comunque all’incanto. Antonio Capacchione, presidente dell’associazione dei balneari Sid, confida che è deciso ad arrivare fino alla Corte costituzionale e organizza la resistenza legale, mentre i suoi associati sono pronti a scendere di nuovo in piazza e a far causa allo Stato. C’è il problema irrisolto degli indennizzi per gli investimenti fatti dai concessionari sugli arenili messi all’asta. Ma, come dimostra Mateschitz, i grandi gruppi verranno comunque a comprarsi le coste italiane a colpi di milioni. D’altronde, è l’Europa che ce lo chiede...