Dopo Tar e Consiglio di Stato, anche il tribunale di Udine conferma il provvedimento. L’uomo, un operatore sanitario, insisteva per l’esonero per problemi reumatologici
UDINE. Dopo il rigetto del Tar del Fvg e quello del Consiglio di Stato, aveva imboccato la strada del tribunale di Udine. Quantomai deciso a far valere le proprie ragioni e ottenere così la riammissione al lavoro, con tanto di corresponsione della parte di stipendio congelata dal giorno della sospensione. Ovviamente, fermo restando il suo rifiuto di ottemperare all’obbligo vaccinale.
Perché lui, aveva insistito nel ricorso, è affetto da patologie che ne giustificano l’esonero. E perché, in ogni caso, il datore avrebbe dovuto garantirgli una collocazione lavorativa alternativa. Anche questo tentativo, il terzo, è andato fallito.
Confermando la correttezza del provvedimento disposto dall’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale il 29 settembre scorso, il giudice del lavoro Ilaria Chiarelli ha respinto la domanda del ricorrente, un operatore sanitario di 62 anni, condannandolo anche all’integrale rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla resistente, per un importo pari a oltre 2.500 euro.
«La patologia è stata ritenuta dallo specialista non ostativa all’effettuazione del vaccino – si legge nell’ordinanza, la prima in materia emessa dal tribunale friulano –. Altre patologie ostative in atto non sono state certificate e in ogni caso non è certamente pensabile poter indagare ciascun soggetto per tutte le malattie conosciute dalla medicina, per escluderle prima di eseguire la vaccinazione».
Non avendo cambiato idea neppure dopo il responso dello specialista, l’opzione di non vaccinarsi è diventata «una libera scelta» priva di giustificazioni.
E contraria anche ai principi costituzionali della Repubblica e dell’Unione europea, come ricorda il giudice attraverso numerosi richiami e sentenze sugli «obblighi di sicurezza e protezione sui luoghi di lavoro» e sulla «salute come interesse della collettività».
Né vale dolersi «di non essere stato posto nelle condizioni di esprimere un valido consenso informato», dopo la pronuncia di ottobre con cui il Consiglio di Stato ha precisato che «nell’odierna situazione emergenziale, le misure per il contenimento del contagio richiedono alle autorità sanitarie un intervento pronto e risoluto, ispirato alla cosiddetta amministrazione precauzionale, che necessariamente si misura con il cosiddetto ignoto irriducibile».
“Cassato” anche l’argomento secondo cui l’azienda avrebbe dovuto assegnarlo ad altro incarico. Tanto più, trattandosi di persona «che volontariamente si sottrae al vaccino».
Il giudice ne fa una questione di pura logica. «Non è perché la norma prevede che un operatore sanitario sia sospeso dalle mansioni che implicano rischio di diffusione di contagio – scrive – che se ne deve assumere come conseguenza inevitabile che nell’azienda esistano necessariamente posizioni lavorative con mansioni che non implicano quel rischio e che il lavoratore non vaccinato sia in grado di svolgerne una qualsiasi».
E infine gli aspetti retributivi, pure lamentati, in quanto «unica fonte di reddito del proprio nucleo familiare». Ma superati dal giudice, non potendosi verificare, al di là di quanto sostenuto, «se il provvedimento datoriale abbia creato un’indigenza economica».
