Le squadre italiane hanno numeri da crac e ora aspettano aiuti dal governo. Ma non è solo colpa dell’emergenza Covid se i tifosi non vanno più allo stadio. Le liti tra i presidenti e gli acquisti sconsiderati di giocatori alla fine favoriscono solo i procuratori.
Ognuno ha i presidenti che si merita. Sabato 29 gennaio, ore 20 e 20: Sergio Mattarella viene eletto capo dello Stato per la seconda volta. Dopo pochi secondi, un Aurelio De Laurentis, più rapido di Victor Osimhen sotto rete, si complimenta via Twitter. «Ho sempre auspicato che Mattarella e Draghi proseguissero insieme il risanamento del Paese» cinguetta il proprietario del Napoli, che non paga l’affitto dello stadio Diego Armando Maradona da 27 mesi e contribuisce così al risanamento finanziario del Comune di Napoli con 3,4 milioni di euro di mancati introiti.
Due giorni prima, all’assemblea della Lega di Serie A a Milano, visto che il governo del sullodato Draghi aveva deciso di negare i famosi ristori ai «poveri ricchi» del grande calcio, lo stesso De Laurentis sibilava: «Quando il governo capirà che 25 milioni di tifosi sono 25 milioni di italiani ed elettori, forse il calcio verrà considerato in maniera diversa». Sì, un’ipnosi collettiva.
Intanto, un po’ meno schizofrenia aiuterebbe i paperoni del pallone tricolore a essere considerati meglio. Il 31 gennaio si è chiuso un mercato invernale di «riparazione» che ha visto la Juventus, dall’alto dei suoi 289 milioni di debiti e dei 210 milioni di perdite nell’ultimo bilancio, conquistare il secondo posto nella classifica mondiale degli spendaccioni. Merito dell’acquisto del centravanti serbo Dusan Vlahovic dalla Fiorentina per 85 milioni.
Nell’intero 2021, secondo l’ultimo rapporto Fifa, l’Italia si è piazzata al secondo posto per shopping di calciatori con 667,7 milioni di dollari spesi, alle spalle dell’inarrivabile Inghilterra (1.386 milioni di dollari) e staccando nettamente Francia (523 milioni), Germania (452 milioni) e Spagna (348 milioni). In realtà, il club controllato dall’Olanda dalla famiglia Agnelli-Elkann, per il cartellino di Vlahovic avebbe speso solo 70 milioni. Ma poi ne ha voluti versare altri 15 al suo procuratore, Darko Ristic. Si tratta di una provvigione del 21%. Nel 2021, secondo la stessa Fifa, le commissioni per intermediazione sono salite nel mondo a 500,8 milioni di dollari, il 95,8% in Europa. I club italiani hanno pagato ai vari Mino Raiola 73,5 milioni. Ufficialmente e volontariamente.
Il 27 gennaio, mentre infuriava un calciomercato da sceicchi, uno che la sa lunga come Beppe Marotta, amministratore delegato dell’Inter dopo aver ricoperto lo stesso incarico alla Juventus, si sfogava con Il Sole 24 Ore come un povero ristoratore. «È un sistema sull’orlo del baratro, che aveva certamente squilibri già prima del Covid, ma che non ha ricevuto praticamente nulla in questi due anni di pandemia» lamentava il manager varesino, solo omonimo del grande sceneggiatore napoletano.
Pur essendo in gran parte tifosi, anche i piccoli azionisti della Juve saranno rimasti stupiti del colpo Vlahovic. Nel 2021, la capitalizzazione di Borsa della Juve si è dimezzata e ora viaggia intorno a quota 940 milioni. Quando la Juve è sbarcata in Piazza Affari, nel 2001, le sue azioni vennero collocate a 3,7 euro. Il 3 febbraio scorso, il titolo passava di mano a 37 centesimi. A dicembre è stato necessario ricapitalizzare con 400 milioni di euro, dopo che appena due anni prima era stato varato un altro aumento da 300 milioni.
L’estate scorsa, John Elkann ha ottenuto dal cugino Andrea Agnelli la testa dell’amministratore delegato dell’area football, Fabio Paratici. Ma quest’ultimo non ha portato rancore, anzi. Se la Juve ha potuto spendere 85 milioni per Vlahovic è perché proprio il Tottenham, guidato da Paratici e allenato da un altro ex dal cuore d’oro come Antonio Conte, si è comprato dagli amici bianconeri l’ala destra svedese Dejan Kulusevski (21 anni) per 45 milioni e il centrocampista uruguaiano Rodrigo Bentancur (24) per altri 25 milioni. Il ventiduenne Vlahovic è comunque un grande campione e dovrebbe consentire alla Juve di lanciare l’assalto scudetto all’Inter, che a 16 giornate dalla fine aveva 11 punti di vantaggio. In mezzo, ci sarebbero anche Napoli, Milan e Atalanta, ma il folle mercato di gennaio ha almeno ravvivato un grande classico come il derby d’Italia tra Juve e Inter.
Il club nerazzurro, di proprietà della holding cinese Suning, che lo controlla attraverso una finanziaria lussemburghese, è guidato dal presidente Steven Zang (pseudonimo di Zhang Kangyang, 31 anni) e non è stato con le mani in mano. Il 26 gennaio si è regalato il tedesco Robin Gosens, pagando 25 milioni all’Atalanta, che quattro anni fa l’aveva comprato per due. L’Inter non è quotata in Borsa, ma proprio mentre annunciava l’acquisto del centrocampista tedesco, chiudeva il collocamento di un bond da 415 milioni di euro.
Due anni fa, l’Inter pagava il 4,8% nominale per rifornirsi sul mercato dei capitali, adesso, per un bond a cinque anni, deve riconoscere un tasso del 6,75%. Se anziché un club di calcio fosse una nazione, starebbe sotto il Bangladesh, i cui titoli a cinque anni pagano il 6,5%. Bangladesh a parte, «non si può ignorare che il calcio sia un comparto industriale come gli altri e che aveva un giro d’affari pre-pandemia di quasi 4 miliardi, che ne porta all’erario 1,2» diceva sempre Marotta al Sole 24 Ore. Anche se tra holding lussemburghesi e compensi offshore ai procuratori l’erario avrebbe forse qualcosa da opinare, questa storia del Covid che avrebbe messo in ginocchio il calcio andrebbe messa a fuoco.
Durante il girone di andata, negli stadi della serie A, come ha calcolato Repubblica domenica 30 gennaio («Più del virus, la noia»), è rimasto invenduto un quarto dei biglietti, con 76 milioni di ricavi in meno e un milione di tagliandi mai staccati. Insomma, mentre si discuteva di capienza al 50 o al 75% causa pandemia, i tifosi disertavano comunque. E i presidenti che chiedevano i ristori per il virus facevano finta di non sapere che i ricavi da biglietti coprono solo il 10% del totale.
Litigiosi come sempre, tra il laziale Claudio Lotito che fa l’offeso perché l’hanno costretto a vendere la Salernitana e un manager dal curriculum ineccepibile come Paolo Dal Pino che il 2 febbraio lascia stremato la presidenza della Lega e se ne vola negli Stati Uniti, molti presidenti non vogliono neppure accettare il principio delle votazioni a maggioranza semplice, chiesto dalla Federcalcio di Gabriele Gravina e dallo stesso Dal Pino. Il fronte di coloro che vogliono mantenere il diritto di veto su tutto, guidato dal tribuno Lotito, comprende Fiorentina, Sampdoria, Verona, Atalanta, Udinese, Napoli, Inter e Cagliari.
Sul chiedere sovvenzioni pubbliche, però, sembrano quasi tutti d’accordo, anche se una vecchia volpe come Paolo Scaroni, presidente del Milan, almeno non si nasconde dietro un dito e ammette: «Paghiamo gli ingaggi milionari garantiti ai calciatori, per cui è difficile fare pena» (Gazzetta dello Sport, 22 gennaio). Di fairplay finanziario e tetto a ingaggi e procuratori si parla da anni, ma solo come strumento di guerre burocratiche tra club.
Dove invece i club hanno ragione è sugli stadi. Se la Juve non ha ancora portato i libri in tribunale è perché ne ha uno bellissimo di proprietà che tranquillizza le banche creditrici. Un impianto nuovo lo vorrebbero da anni anche la Roma, l’Inter, il Milan, la Sampdoria, il Genoa, la Fiorentina e tanti altri club, ma la politica locale agisce da freno. Forse è qui, che il governo e il Parlamento dovrebbero intervenire. Invece tocca sentire il sottosegretario allo Sport, Valentina Vezzali, chiedere al calcio «riforme in cambio di aiuti» (Sole 24 Ore del 30 gennaio). Sembra lo stesso schema usato con le Autostrade dei Benetton dopo il crollo del ponte Morandi e la riscoperta dei lavori stradali. Solo in Italia, i governi danno soldi pubblici a chi non ha fatto il proprio dovere fino al giorno prima, parlando di «riforme».
