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E’ Barty la nuova regina (Viggiani, Bertellino). Nadal e Medvedev per la storia (Crivelli, Mastroluca, Semeraro)-

Sì Barty, sì party. Dopo 44 anni (Mario Viggiani, Corriere dello Sport)

Era davvero dura, per Danielle Collins. Aveva contro Ashleigh Barty, la numero 1 del mondo, ma anche tutto il pubblico, che per le finali dell’Australian Open ha potuto riempire la Rod IaverArena all’80%. I tifosi aussie si sono fatti sentire soprattutto nel secondo set, dopo che a sorpresa la statunitense era scappata fino al 5-1.E infatti la Collins ha anche sollecitato la giudice arbitro Marijana Veljovic a tenerli buoni in qualche modo. Però non è bastato: Danielle ha sprecato due turni di servizio (sul 5-2 e sul 5-4) e “Ash”, che aveva vinto il prima set per 6-3, l’ha riagganciata sul 5-5 per mandarla definitivamente fuori giri nel tie-break che la grande favorita ha dominato per 7-2, completando così lo Slam perfetto (sette partite vinte, senza perdere neppure un set). E così è stato finalmente “Barty Party”, la festa tanto attesa: un’australiana non vinceva lo Slam di casa da 44 anni (Christine O’Neil nel 1978), Ashleigh ne aveva conquistati due (Roland Garros 2019 e Wimbledon 2021) ma qui era arrivata al massimo in semifinale, nel 2020. In premiazione è spuntata Evonne Goolagong, inattesa perché il marito non sta bene fisicamente: per `Ash” è stata la chiusura del cerchio, stringere il trofeo a fianco della connazionale che solo in singolare di Slam ne ha vinti sette e che soprattutto già nel 2011, quando la Barty non era ancora 15enne, le pronosticò un futuro da stella del tennis. E “Ash” non ha mai deluso la Goolagong: quello stesso anno vinse Wimbledon da junior (a quel punto 15enne: è nata ad aprile), il resto lo sapete (quello di ieri è il 15° torneo da pro). Il primo Slam è arrivato nel 2018 ma in doppio, all’US Open, in coppia con la statunitense CoCo Wandeweghe e non con l’amica Casey Dellacqua che ieri a bordocampo s’è beccata in fronte il primo bacio di ringraziamento dopo il trionfo contra la Collins. E forse questa 25enne nata a Ipswich, nel Queensland, ma orgogliosamente “ngaragu” (aborigena del New South Wales), sarebbe diventata la più forte di tutte anche prima se per un anno e qualcosa, dall’autunno del 2015 alla fine del 2016, non avesse rinunciato al tennis per giocare da professionista a cricket. Adesso alla Barty manca solo l’US Open per avere in bacheca tutti e quattro gli Slam.

Barty fa godere un intero Paese dopo 44 anni (Roberto Bertellino, Tuttosport)

Un momento indimenticabile per lo Sport e il tennis australiani quello regalato ieri dalla n.1 del mondo Ashleigh Barty. L’australiana di Ipswich, confermandosi la migliore del lotto e del seeding, ha alzato per la terza volta in carriera, la prima a Melbourne, un trofeo deIlo Slam, dopo Roland Garros 2019 e Wimbledon 2021. Successi arrivati su tre superfici diverse, a conferma della versatilità del suo gioco e del talento di cui dispone. “Ash” ha vinto in Australia 44 anni dopo la sua connazionale Chris O’Neil che, curiosamente, è stata anche allenatrice della sua avversaria in finale, Danielle Collins. Affermazione firmata in due set, con gran recupero nel secondo dall’1-5 fino al tie-break firmato per 7 punti a 2. «Questo torneo è una delle più belle esperienze che abbia mai vissuto, grazie a chi lo ha organizzato in circostanze difficili. Grazie a raccattapalle e giudici di sedia per il tempo che ci avete dedicato e grazie al mio team. L’ho detto tante volte: sono così fortunata ad avere così tante persone che mi vogliono bene. Siete i migliori e non posso ringraziarvi abbastanza. E’ un sogno che si realizza, sono orgogliosa di essere australiana. Ci vediamo l’anno prossimo». La tennista di casa è stata premiata da Evonne Goolagong, una piacevole sorpresa dell’ultimo minuto: «E’ stato speciale poter abbracciare Evonne e aver condiviso con lei questo momento unico». Nella serie di emozioni, un’altra Ashleigh Barty l’ha provata abbracciando Casey Dell’Acqua: «Casey è la mia migliore amica, una presenza fondamentale nella mia vita».

Medvedev doppia carica, a Nadal e al numero 1 (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Diverso da loro. Daniil Medvedev ha un modo davvero personale di interpretare Il ruolo di fresca rockstar assoluta del tennis, meritato grazie a più di due anni di risultati formidabili. A cominciare dal suo stile, sgraziato e sghembo, eppure cosi efficace con quei colpi piatti che pochi avversari riescono a leggere e quelle improvvise variazioni che pizzicano angoli imprendibili. E poi c’è quella personalità all’apparenza stramba e svagata, che si alimenta nel conflitto con il pubblico, i giudici di sedia, le furbizie degli avversari, diventando una camera di compensazione per garantirgli un rendimento eccezionale in campo. È successo anche nella semifinale di venerdì contro Tsitsipas, quando ha dato del «piccolo micio» all’arbitro che non richiamava Il greco per il continuo utilizzo del coaching, prendendosi 10.700 euro di multa che lo accompagneranno in finale: «In quel momento ero molto nervoso, ho avuto paura di perdere il filo del match. Non riuscivo a controllare nulla. Quando ho una discussione con l’arbitro me ne pento sempre alla fine. Non è bello agitarsi, anche loro sono li per fare al meglio il proprio lavoro». Ora sul cemento, l’Orso di Mosca va di diritto nella stessa dimensione di Djokovic e Nadal. Al primo, a settembre, ha negato il Grande Slam battendolo in finale a New York, al secondo, stamattina alle 9.30 italiane, cercherà di impedire l’aggancio al 21° Slam dei record già fallito proprio da Nole. In una sola, torrida notte, Medvedev può cosi diventare il primo giocatore dell’Era Open a conquistare il secondo Slam subito dopo aver vinto il suo primo in assoluto, ma soprattutto scalzare Djokovic dal numero uno del mondo. Daniil potrebbe salire al vertice il 14 febbraio se trionferà in Australia e a Rotterdam, o il 21 se alzerà solo la coppa di Melbourne. «Il nostro sport è una battaglia, sei solo contro un altro giocatore. Ecco perché ho il massimo rispetto per quelli che non lasciano trasparire emozioni, è difficilissimo. Nadal e il massimo esempio della perfezione da questo punto di vista. Io ci sto lavorando su, sono molto diverso rispetto a cinque o sei anni fa». Quando immaginare di entrare in campo da favorito contro un Big Three in una finale Slam rimaneva nell’angolo più recondito delle fantasie: «Sono veramente forti. È davvero difficile arrivare in finale, e poi eccoli sempre li ad aspettarmi. È divertente. Quando avevo otto o dieci anni giocavo contro il muro e immaginavo che dall’altra parte ci fosse uno tra Rafa e Roger. Novak doveva ancora arrivare. Adesso ho la possibilità affrontare di nuovo Nadal. La prima volta a New York è stata una partita combattuta, epica. Cercherò di prepararmi bene, ho imparato che con lui devi andare oltre il cento per cento per vincere. Sono riuscito a farlo agli Us Open con Djokovic, e adesso dovrò ripetermi». E dall’altra parte della rete non ci sarà solo un avversario: «Ogni volta che Roger e Rafa si infortunano si dice sempre “è finita, non torneranno”. Beh, guardate Rafa, è di nuovo al top come Federer tomò alla grande dopo l’infortunio al ginocchio. Loro tre hanno numeri stratosferici, quello che ha fatto Nadal al Roland Garros dubito che qualcuno possa ripeterlo. Sono felice di avere l’opportunità di impedirgli di fare la storia conquistando il 21° Slam. È un match che dovrò preparare al meglio, sia a me che a lui piace allungare gli scambi, metterla sul piano fisico. Combatteremo fino all’ultimo punto, ma mi farò trovare pronto».

Nadal oggi bussa 21 colpi alla storia (Alessandro Mastroluca, Corriere dello Sport)

Dieci anni fa, a Melbourne, Rafa Nadal perdeva Contro Novak Djokovic la più lunga finale Slam nella storia del gioco, dopo cinque ore e 53 minuti di battaglia sfiancante. «Sono stanco, ma fiero di aver partecipato a una partita così» disse allora. C’erano stanchezza, orgoglio, insieme a sollievo e sorpresa, anche nelle lacrime nascoste dentro al borsone al termine della semifinale vinta su Matteo Berrettini. Lacrime dolci dopo mesi di dubbi per le conseguenze ultime della sindrome di Muller-Weiss, una condizione incurabile che comporta la deformazione delle ossa del piede. Dopo il forfait dello scorso agosto a Washington, ha temuto di dover smettere definitivamente con il tennis. Invece si e risollevato una volta ancora, vincendo il titolo numero 89 della sua carriera all’inizio di gennaio a Melbourne Park e poi tornando nello stesso impianto per provare a scrivere ancora un’altra pagina di una storia che non conosce fine. Oggi, infatti, Rafa Nadal giocherà la 29^ finale su 63 Slam disputati. La sfida contro Daniil Medvedev, che l’anno scorso ha tolto a Novak Djokovic la possibilità di completare il Grande Slam, suona come una definitiva guerra tra il presente e il futuro . Il maiorchino è ormai a una sola vittoria dal ventunesimo Slam in carriera, e dunque dalla prospettiva di diventare il più titolato di sempre nei major staccando Federer e Djokovic. Ma la sua felicità, ha detto, non si misura dal numero di trofei vinti, né con dall’averne ottenuti più o meno dei due rivali con cui ha condiviso un’oligarchia per molti versi irripetibile nella storia del tennis. «Rendermi conto di poter giocare e di farlo a questi livelli è molto più importante che vincere il ventunesimo Slam. La felicità dipende dalla possibilità di fare ciò che mi piace» ha detto dopo la semifinale. L’Australian Open è il suo secondo miglior Slam in termini di partite vinte, ma è anche il major in cui ha trionfato di meno e quello in cui si è ritirato più volte: forfait prima del torneo nel 2006 e 2013, a partita in corso, sempre nei quarti di finale, nel 2010 (contro Andy Murray) e 2018 (contro Marin Cilic). «Ho attraversato tanti momenti difficili, tanti giorni passati senza vedere la luce – ha confessato -, ma non ho smesso di lavorare, sempre con il supporto del mio team e della mia famiglia. E so che i miei mesi duri non sono niente rispetto a quello che hanno passato tante famiglie a causa della pandemia. Sono una persona fortunata». Il resto l’ha fatto il suo DNA competitivo che non ha fatto spegnere la luce della passione per lo sport. Il segreto sta nell’aver imparato come zittire le voci nella testa, uno sforzo ben maggiore dell’impegno fisico durante una qualsiasi partita. «Devo chiudere tutto fuori dalla mente, a parte il match, e concentrare ogni atomo del mio essere sul punto che sto giocando. Se ho commesso un errore nel punto precedente, devo dimenticarlo; se un pensiero di vittoria mi attraversa la mente, devo eliminarlo».

Medvedev il guastafeste. Ostacolo per Nadal verso il record di Slam (Stefano Semeraro, La Stampa)

La Leggenda e il Guastafeste, il Gentleman delle Baleari e lo Zar dei Pestiferi. Insomma Rafa Nadal e Daniil Medvedev, centrifugati sul centrale di Melbourne Park per capire se a spuntarla sarà un sogno che viene da lontano o un progetto ancora da inquadrare. Nadal è stato lontano dal tennis sei mesi, dolorante al piede sinistro e con un chiodo fisso fra i pensieri: forse stavolta non ce la faccio. Forse è ora di dire basta. A 35 anni, non sarebbe neppure strano. «Per molto tempo non ho potuto nemmeno allenarmi. A volte rimanevo in campo 20 minuti, altre 45, altre due ore, altre nemmeno un secondo. E allora lavoravo in palestra». Una volontà feroce. E la convinzione di non aver finito il lavoro. Insieme con Federer, che gli ultimi dispacci danno a Dubai impegnato in un problematico rientro, e al Djokovic furioso e non vaccinato, Nadal è a quota 20 Slam vinti. Il serbo fino a pochi mesi fa era strafavorito per la volata finale, ma la sconfitta a New York, proprio contro Medvedev in finale, oltre al Grande Slam gli ha impedito l’allungo sui rivali. Dopo aver negato al Djoker l’impresa del secolo, Daniil sogna di inceppare anche la macchina da guerra (tennistica) di Nadal, che con il secondo successo a Melbourne diventerebbe il quarto a prendersi i quattro Slam almeno due volte (come Laver, Emerson e Djokovic) e supererebbe gli altri due Mostri, con la prospettiva di ripetersi fra pochi mesi nel suo feudo di Parigi. I bookmaker visti i dieci anni di differenza danno il russo leggermente favorito, ma guai a fidarsi del Cannibale. Nel 2013, dopo sette mesi di stop, Rafa vinse Parigi, gli Us Open e tornò n. 1. Ha poi davanti chiarissimo l’esempio di Federer, che nel 2017 dopo sei mesi di stop per l’infortuno al ginocchio vinse gli Australian Open strappando proprio a lui un mitico quinto set. Un miracolo, rivedere Nadal a questi livelli nonostante l’età e le cicatrici. Osservarlo dismettere in cinque set i 22 anni di Shapovalov e in quattro le bombe di servizio di Berrettini per conquistarsi la 29a finale Slam. Da anni Rafa sa benissimo che il problema congenito al piede sinistro (la sindrome di Muller-Weiss, una deformazione dell’osso scafoide) lo costringerà a soffrire fino a fine carriera. «Ma nel mondo ci sono problemi ben più gravi. Per me sapere di poter ancora giocare a questi livelli è la vera felicità. Molto più importante che vincere il 21° Slam».

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