Valerio Lundini

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di Pietro Minto

Non succede spesso che un comico diventi un fenomeno di massa, perlopiù intergenerazionale, in così poco tempo. O meglio, è raro che succeda con quelli divertenti. A Valerio Lundini è capitato. Nel giro di poco più di un anno, e che anno, il 35enne romano è passato da un seguito di culto costruito online e in qualche comparsata televisiva al fenomeno di Una pezza di Lundini, il programma di Rai2 che ha probabilmente colonizzato i vostri feed.

Lundini ha raccontato spesso di aver lavorato allo show pensando che l’avrebbero visto in quattro cani: tarda serata, comicità nonsense, una band d’accompagnamento che si chiama I Vazzanikki… E invece, complice la viralità delle sue interviste, la diffusione di clip su Instagram e WhatsApp, ma anche le reaction su Twitch e TikTok, la Pezza ha trionfato: un successo corale spinto anche dalla spalla Emanuela Fanelli e il coro d’autori e comparse che rendono lo studio della Pezza una scheggia impazzita nel panorama televisivo. Questo allineamento cosmico ha reso Lundini un’improbabile stella quasi nazionalpopolare (già battezzato a Sanremo quest’anno), ora impegnata in un tour dei «bei teatri» d’Italia.

A qualcuno sembrerà sia sbucato dal nulla: nulla di tutto questo. Andate a recuperare i video più vecchi del suo canale YouTube, i personaggi deformi che aveva creato sul suo Instagram, o le sue incursioni a Sei Uno Zero con Lillo & Greg, programma con cui tuttora collabora. Tutti passi di una gavetta comica lunga e umile, interrotta, per così dire, da un successo pandemico che con la pandemia ha ben poco a che fare. Com’è bello quando anche le schegge impazzite fanno centro.

Alessandra Galloni

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di Paola Peduzzi

Quando nell’aprile scorso Alessandra Galloni è stata scelta come direttrice della Reuters, la prima donna e la prima italiana in 170 anni di storia alla guida di una delle agenzie internazionali più rinomate del mondo, ci sono stati molti complimenti e molti sospiri. Galloni ha 47 anni, una laurea in Economia politica a Harvard, un master alla London School of Economics, è entrata in redazione da ragazza con il sogno del giornalismo fisso in testa, ha lavorato all’Associated Press e al Wall Street Journal, è arrivata alla Reuters nel 2013, ha vinto premi, ha raccontato «agricoltori, operai, stilisti, vescovi, banchieri, barbieri, piloti, politici, rifugiati, nonni, assassini e magnati del latte», ha un marito, due figli, un maschio e una femmina – e quando parla del suo lavoro, sorride sempre. I complimenti erano più che meritati: di carriere così non se ne vedono spesso.

I sospiri erano di due tipi e prevalentemente italiani: vedete, per avere successo bisogna andare all’estero, qui non funziona nulla; vedete, se sei donna devi andare all’estero, qui il soffitto di cristallo è indistruttibile.

Galloni è studiata per evitare piagnistei e simbolismi eccessivi, non si sente un cervello in fuga – ha scelto l’Italia quando ha potuto, è andata altrove quando c’è stata l’occasione: non la sentirete mai dire qualcosa di polemico in proposito – né si ferma a rispondere se le chiedi «direttore» o «direttrice»? È editor in chief, ha tanti obiettivi, una grande dedizione e la passione per le informazioni più che per le battaglie ideologiche.

Prima di essere nominata direttrice, Galloni si era occupata della riorganizzazione dei duecento uffici di corrispondenza della Reuters in giro per il mondo, un compito che l’ha appassionata e che l’ha fatta riflettere, perché non solo doveva prendere decisioni manageriali ma anche proiettare l’agenzia nel futuro e con essa il modo di fare informazione.

Tiene molto alla convergenza «tra globale e locale» (Reuters pubblica in molti Paesi nella lingua del posto) e altrettanto all’affidabilità: dice che ci sono molte persone che si occupano di verificare le informazioni e che tentano sempre di sentire più fonti non soltanto per avere conferme, ma anche per dare un quadro completo delle situazioni più complesse e renderle così comprensibili o almeno decifrabili. Obiettività e competenza non sono soltanto, secondo Galloni, principi imprescindibili per operare nell’informazione ma anche una questione commerciale: le testate si fidano di Reuters e remunerano la sua credibilità.

«Fiducia» è un termine che ricorre spesso nei suoi discorsi, è il patto che c’è con i consumatori finali, ma è anche il modo di non farsi trascinare troppo dalle mode o dalle pretese dei lettori: il coraggio, secondo Galloni, sta nel comprendere che ogni cosa è in continua evoluzione e che alla fine l’obiettivo è costruire aziende, istituzioni, persone più informate, che possono formarsi le loro opinioni. Senza potersi fidare questo sarebbe impossibile.

La direttrice di Reuters non è nemmeno spaventata dai social e dalle continue turbolenze che arrivano nel confronto con i media tradizionali: il cambiamento è opportunità, ma bisogna sapere sempre quello che si è e che si vuole, per questo se deve scegliere tra arrivare per prima su una notizia – lo scoop! – o essere riconoscibile come il media che dice la verità, non ha un dubbio: la verità batte tutto.

E se le chiedi cos’è che non la fa dormire di notte, se le tante cose da fare, se la competizione degli altri, se la pressione continua, dice con un velo sugli occhi: «Ho sperato da direttrice di non dover mai affrontare una cosa che purtroppo è accaduta proprio nei primi mesi: la morte tragica di uno dei nostri giornalisti in Afghanistan».

Alessandra Buonanno

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di Gianluca Dotti

Quando nel 2015 l’osservatorio d’Oltreoceano LIGO ha captato per la prima volta una flebile increspatura nel tessuto dello spazio-tempo, un’onda gravitazionale, una nuova era dell’esplorazione cosmica ha avuto inizio. Abbiamo cominciato a percepire l’universo non solo con gli occhi, le onde elettromagnetiche, ma anche con le orecchie, grazie a enormi interferometri gravitazionali. Tutto per cogliere finissime vibrazioni colme di informazioni cosmiche che la teoria della relatività ci aiuta a decifrare. «Stiamo vivendo una rivoluzione in astrofisica, sfiorando lo spazio più distante, oscuro e profondo»: parola di Alessandra Buonanno, direttrice dell’istituto Max Planck per la fisica gravitazionale di Potsdam, a sud-ovest di Berlino. Centro non a caso noto pure col nome del papà della relatività, Albert Einstein Institute, dove Buonanno è arrivata dopo un dottorato a Pisa, il CERN, Parigi, la California e l’Università del Maryland. A lei quest’anno il prestigioso Premio Balzan, ma soprattutto la Medaglia Dirac assegnata dal centro internazionale per la fisica teorica di Trieste, prima donna italiana e seconda assoluta a riceverla. Motivo: i suoi modelli matematici per studiare e capire le forme d’onda gravitazionali, che una volta interpretate valgono la migliore prova di sempre dell’esistenza dei buchi neri.

«Galilei col suo cannocchiale ha inaugurato quattro secoli di osservazioni spaziali, ed è straordinario vivere ora un momento altrettanto epocale». Combinando segnali diversi, luce e gravità, abbiamo l’astronomia multi-messaggero. «Misuriamo la velocità d’espansione dell’universo e captiamo collisioni tra stelle di neutroni: è lì che gli elementi più pesanti come oro, uranio e plutonio si formano». Ma aver scoperto tutto l’oro del mondo non basta: «A fine 2022 nuove osservazioni, con anche l’interferometro pisano Virgo e per la prima volta il giapponese KAGRA, creeranno una fioritura di dati per studiare un’intera popolazione di buchi neri». E per Buonanno, che non disdegna l’appellativo di «signora dei buchi neri», il valore non è solo scientifico ma pure allegorico: «La diversità che scopriamo nel cosmo, con corpi celesti così differenti e i buchi neri che formano quasi un ecosistema con le stelle intorno, ci restituisce una visione ancora più ampia dell’universo e della vita». Da traslare magari qui a Terra, dove la diversità nel fare scienza è cruciale. «La ricerca in sé non ha barriere, l’importante è ottenere risultati brillanti e innovativi. Non conta chi li raggiunga, dove abiti e che idee politiche o religiose abbia. In Italia, patria di gruppi di ricerca straordinari, oltre all’annosa carenza di fondi per la ricerca fondamentale si potrebbe rendere il reclutamento universitario più attraente, flessibile e aperto agli stranieri». E magari privo di gap di genere. «Se il premio che ho ricevuto è un messaggio positivo per le ragazze che desiderano una carriera nella fisica, ci sono ancora barriere culturali e sociali che spesso impediscono di sviluppare appieno passione e competenze, con un contesto che tende a creare stereotipi di genere, anche nello spostarsi tra Paesi e tra modi diversi di fare scienza».

Fin da liceale, quando negli anni Ottanta sfogliava riviste sulle nuove particelle elementari appena scoperte al CERN, era conquistata da «un lavoro in cui ci si potesse porre domande fondamentali sull’universo e cercare risposte». Quella tensione mai svanita prende forma oggi in almeno un paio di sogni nel cassetto: «Scoprire con le onde gravitazionali oggetti spaziali del tutto nuovi, che ora nemmeno immaginiamo. E poi andare indietro nel tempo a una frazione di secondo dal Big Bang, un filone di ricerca che durerà secoli ma che magari raggiungerà traguardi già entro il Ventunesimo». Intanto, nuovi strumenti sono in arrivo: il sotterraneo Einstein Telescope europeo e il Cosmic Explorer statunitense nel corso degli anni Trenta, e nel 2036 l’Agenzia spaziale europea programma di lanciare nello spazio un’antenna interferometro – Lisa – per studiare buchi neri grossi un milione di masse solari, come quello che campeggia al centro della Via Lattea. «Le onde gravitazionali che cattureremo non dureranno più una frazione di secondo, ma oltre un anno, frutto di buchi neri che spiraleggiano uno intorno all’altro, quasi danzando, fino a fondersi».

Aboubakar Soumahoro

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di Tamara Ferrari

Di se stesso Aboubakar Soumahoro dice: «Sono uno dei tanti giovani con un sogno che li ha portati a prendere un volo low cost e cambiare Paese. Ai quali è stato detto: “Il tuo destino è segnato, farai la fine dei tuoi genitori poveri”. Ma la mia è anche la storia di chi prova a condividere il suo sogno con gli altri, e insieme cercano di cambiare la società».

Nato nel 1980 in Costa d’Avorio, a 19 anni sbarca a Milano: «C’era un grande freddo, a lungo ho indossato due paia di pantaloni». Si trasferisce a Napoli, e siccome il suo permesso di soggiorno è scaduto, vive in clandestinità: «Ho iniziato a frequentare le associazioni che organizzavano momenti di ascolto e informazione per immigrati», racconta.

Fa il muratore, il benzinaio, il bracciante agricolo. È uno dei tanti invisibili sfruttato dai caporali. Intanto, s’interroga su come difendere i propri diritti e quelli degli altri.

La prima manifestazione a Roma: «Trovai un volantino, mi aggregai a studenti e immigrati che andavano nella capitale. Al ritorno, sul treno, discussi dei nostri problemi con tanti giovani come me». Nasce l’idea degli Invisibili in movimento: «Una comunità politica che lotta per i giovani, il diritto alla casa, contro l’impoverimento e l’esclusione sociale, che ascolta i dannati in fuga nella speranza di ricostruirsi una vita e i dannati della crisi climatica». Nel 2012, Aboubakar Soumahoro organizza una marcia dei sans-papiers, che attraversano senza documenti sei Paesi europei per chiedere la libertà di circolazione delle persone come già accade per le merci.

Intanto, si è laureato in Sociologia con una tesi sulla condizione dei migranti nel mercato del lavoro italiano e lotta da sindacalista contro lo sfruttamento lungo tutta la filiera agricola. «Mia madre mi ha insegnato a non restare indifferente di fronte alle ingiustizie», dice, «se tutti lo facessimo, nel mondo si aprirebbero le porte alla speranza e alla felicità».

Nel 2018, all’indomani dell’uccisione a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, del bracciante e sindacalista Soumalia Sacko, assassinato mentre raccoglieva lamiere per costruirsi una baracca di fortuna, Aboubakar Soumahoro ottiene dal governo l’apertura di un Tavolo di contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura. Ma i risultati non si vedono. Allora s’incatena sotto Villa Doria Pamphilj, dove si svolgono gli Stati Generali dell’economia: «Mi riceve l’ex premier Giuseppe Conte», racconta, «propongo di istituire una “patente del cibo”, cioè un modo per far sì che i consumatori sappiano se quello che mangiano è stato prodotto in maniera etica dal seme fino ai rider». La risposta delle istituzioni: «Nessuno ha fatto nulla». La controrisposta di Aboubakar Soumahoro: la riunione a Roma, il 5 luglio 2020, degli Stati Popolari degli Invisibili. «Vogliamo scrivere una storia diversa», dice, «ottenere un reddito minimo di esistenza che sia svincolato dal lavoro, per dare una possibilità alle persone di poter dire che esistono e avere una base oltre la quale i salari non possono scendere. Cambiare modello economico: quello attuale, fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, sta mettendo in discussione la nostra sopravvivenza. Vogliamo un mondo dove le persone vivano la propria felicità senza calpestare quella altrui».

Il suo motto è: «Meglio fare un passo con  il popolo che cento passi senza». Il suo sogno: riscattare i braccianti. L’11 agosto 2020 ha lanciato la Lega Braccianti e ha inaugurato nel Foggiano la prima Casa dei diritti e della dignità. Spiega: «C’è la volontà di associare tutti i braccianti d’Italia con la prospettiva di un’alleanza con i consumatori, per ricercare la via del proprio sviluppo, della propria difesa e di un maggiore benessere economico e spirituale».

Parole che ripete ogni giorno su Twitter, dove è seguito da più di 95 mila persone, e su Instagram, dove trasmette l’amore per l’impegno nel sociale.

Ambra Sabatini

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di Cristina D'Antonio

Fa più fatica a camminare che a correre. Quando serve, stacca la protesi e la lascia a terra. «È come levarsi una scarpa: a letto si va senza, no?». Se osserva il moncone sopra il ginocchio guarda la parte rimasta, non quella assente. Ambra Sabatini, 19 anni, è campionessa paralimpica e primatista. Suo l’Oro nei 100 metri a Tokyo – protagonista di un’incredibile tripletta con Martina Caironi (argento) e Monica Contrafatto (bronzo). Suo il record di velocità, 14”11, superando quello già stabilito a febbraio. Da Porto Ercole, dove è nata e cresciuta, sta per trasferirsi a Castelporziano, nella caserma delle Fiamme Gialle tra la tenuta del presidente della Repubblica e Ostia antica. Avrà, finalmente, la pista sotto casa. Finora per allenarsi ha viaggiato: 50 chilometri per Grosseto, 50 al ritorno.

Le scrivono per chiederle com’è la vita adesso. Non dopo l’Oro. Ma nel momento in cui si perde un pezzo di sé. «Hanno paura. Si trovano in una terra di mezzo, senza bussola», riflette. «Io ho sempre avuto lo sport: prima correre era un obiettivo, poi è stato un punto di ripartenza». Il suo compito, dice, non è avere coraggio. Ma infonderlo. «Un disabile è visto spesso come un malato. Le stampelle fanno paura a chi non le ha mai usate. Le protesi spaventano meno: le mani restano libere, un ostacolo in meno all’interazione. Ma l’impatto visivo resta; le persone non sono pronte al passo successivo, a non ignorare tronconi e moncherini». Diversità, disabilità: «I tempi sono maturi per cambiare vocabolario: accetteremo, invece, il principio di unicità?».

Ambra Sabatini era in motorino con il padre quando sono stati investiti. È sempre stata lucida, anche stesa sull’asfalto. «Meglio se mi tagliano la gamba, così ricomincio a correre, piuttosto che restare zoppa. Aveva 17 anni: «Come atleta conoscevo gli infortuni, e mi sono sempre rimessa in piedi. La decisione stava a me». Oscar Pistorius, amputato bilaterale capace di gareggiare con i normodotati, le ricordava che tutto è possibile. E poi Alex Zanardi le aveva scritto: «Mi diceva di prendermi il tempo per realizzare cos’era successo, che poi non sarebbe bastato per fare ciò che volevo».

Alle Olimpiadi si creano eroi, alle Paralimpiadi arrivano gli eroi, ha detto dopo Tokyo. «È una frase che ho preso in prestito da un documentario, Rising Phoenix. Per vincere, un atleta deve superare i propri limiti. I disabili lo fanno prima di arrivare in gara». Sabatini ha dovuto imparare, da adulta, quanto appreso da bambina. Camminare, andare in bicicletta, correre: «Ricominciare da capo, con consapevolezza, trasforma ogni impresa. Più di una volta mi sono dovuta ingegnare: per esempio, legando la protesi al pedale per muovermi in bici. Certo: pensare da agonista aiuta». Le premesse ci sono sempre state. All’inizio pattinava sul ghiaccio, «una pratica troppo estetica. Così sono passata alla pallavolo».

Un giorno ha visto il Golden Gala, il meeting di atletica che si tiene all’Olimpico di Roma. Ha scelto la staffetta, sperando di essere notata. È successo a 12 anni, durante una competizione tra scuole. Oggi gareggia nella categoria T63, degli atleti amputati sopra il ginocchio, ma alla gamba finta che sembra vera preferisce la protesi. Anche sotto la gonna: «Può essere un dettaglio interessante, che appartiene solo a me. Nasconderlo serve solo a trasmettere insicurezza».

Mentre lavora per abbattere il muro dei 14 secondi, e si prepara per i prossimi Mondiali di atletica, dice che Caironi e Contrafatto sono le sue sorelle d’elezione. «Sembra un copione per una serie tv, lo so: avere Martina e Monica come compagne di Nazionale, ma anche come avversarie, è ambivalente. L’atletica è uno sport individuale: si è tutti contro tutti. Noi però ce lo eravamo promesso, di ritrovarci su quel podio». Be’, hanno anche fatto storia.

Francesco Cicconetti

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di Jacopo Bedussi

«Non siamo mica gli americani!», vien da pensare chiacchierando con Francesco Cicconetti, 25enne riminese, eletto creator dell’anno agli ultimi Diversity Media Awards. Vien da pensarlo un po’ per l’accento romagnolo che non fa nulla per nascondere e un po’ perché dal vivo, come nei video, c’è una specie di genuinità locale, forse il famoso genius loci, fatto di concretezza e sorrisi senza contagocce.

Questo suo essere un divulgatore italiano, a km zero, è la risposta a una domanda banale: chi sono gli uomini trans italiani che hanno scelto di essere visibili, di rappresentare pubblicamente la propria identità? La risposta è altrettanto banale: pochissimi. Tra questi, Cicconetti, 140 mila follower su Instagram, è probabilmente il più noto.

Ha scelto di essere locale perché la rappresentazione in un ambiente riconoscibile è importante, anzi, mi dice: «È fondamentale, perché vedere qualcun altro ti dimostra che quella possibilità esiste, ti permette di pensare che magari sei anche tu quella cosa lì. Rendendo un’idea una cosa reale. In Italia di uomini trans che possiamo considerare modelli praticamente non ce ne sono. Ce ne sono di americani, ma sembrano lontani, astratti, puri concetti. Io ne seguivo uno con 300 mila follower ma per me era un’entità a parte, viveva in un ambiente che non aveva niente a che fare con la mia vita. Invece io e altri ragazzi abbiamo portato un esempio quotidiano, terreno, per dimostrare che è un percorso normalissimo a cui può accedere chiunque».

C’è consapevolezza di sé nel suo essere una figura pubblica, nel definirsi un divulgatore, uno che racconta la propria storia, e nel non volersi appropriare del titolo di militante, che ritiene qualcosa di diverso e più nobile. È probabilmente una cosa generazionale questa di saper gestire la propria immagine mediatica con equilibrio, essendo lui mediatico dall’adolescenza, da quando cioè ha avuto libero accesso ai social.

La comunità che lo segue è affettuosa ma «ci vuole pazienza, le persone pensano che hai sempre voglia di discutere. Invece a volte vuoi spegnere tutto. Ma raccontarmi per me è una cosa naturale e mi viene spontaneo in una fase in cui c’è bisogno di rappresentazione per gli uomini trans. Lo faccio perché vedo che è utile, se su mille persone che non capiscono ce n’è una che invece scopre cose nuove, allora ne vale la pena». Raccontarsi non è una scelta narrativa. Quella familiarità con i media della Gen Z, quella sovrapposizione completa tra realtà e narrazione si nota anche nella scelta di apparire fisicamente. Di mostrare un corpo che ha anche un significato politico, perché, mi spiega, «il corpo di un uomo trans è un corpo che deve occupare uno spazio nell’immaginario delle persone», e anche, più pragmaticamente, per spiegare alle persone che «se vedi in spiaggia un corpo così, non guardarlo strano». I suoi follower hanno potuto seguire passo dopo passo la fase post-operatoria della rimozione del seno. «Non se ne vedono molte di mastectomie, e magari qualcuno era terrificato e adesso vede che l’ho fatto e che sto bene e inizia ad avere meno paura».

Finiamo il caffè e ci salutiamo, e penso che Francesco coraggioso lo è di sicuro, ma non sembra interessargli più di tanto. Perché raccontare la sua storia gli viene naturale, come guidare o respirare, che mentre lo fai non è che stai lì a pensarci, e allora lo ascolti come si ascolta un amico, non come una celebrità.