“Le violette dell’Imperatore” opera prima di Maura Garofoli pubblicata da Leg racconta la storia di sua nonna Tilde
GORIZIA. Un romanzo dal titolo profumatissimo, “Le violette dell’Imperatore”, spunta nel catalogo della goriziana Leg (pagg. 214, euro 18), che da sempre indugia nella saggistica, nel solco della Storia. Non tradisce quel sentiero ben segnato l’esordio narrativo di Maura Garofoli, scelta editoriale che Adriano Ossola così motiva: «È un romanzo storico, ambientato a Gorizia. Una storia vera, trasfigurata in ottima veste letteraria». Maura Garofoli, originaria di Gorizia e trapiantata nelle Marche, ha raccolto nel tempo tasselli, indizi e testimonianze di famiglia, attraverso la voce materna, il racconto di amici, il rinvenimento di materiale epistolare e fotografico. La storia di nonna Tilde, donna di dignità e scandalo, e quella dei canditi prodotti a Gorizia ed esportati a Vienna, graditissimi a Sissi e all’Imperatore, andavano fissate sulla pagina. È da questo bisogno di salvare sé e il passato che nasce il romanzo. Storico, si diceva, ma anche d’amore e di formazione. Tre generazioni di donne e uomini imparano ad amare e a sopravvivere alla guerra.
Basta seguire la fragranza per intercettare la scia della vicenda. Petali «appena sbocciati e madidi di rugiada, tremolanti nella prima luce dell’alba», in un luogo segreto, sul monte Calvario, in attesa di essere raccolti e riposti in un cesto ricoperto di muschio a rendere più dolce e sicuro il viaggio fino in laboratorio, perché le violette, come le relazioni, vanno protette e valorizzate. Pennellate di sciroppo, spolverate di zucchero, cristallizzate, candite, «leggere, preziose e lucenti come gioielli». Sa di vaniglia il primo amore di Tilde, odora di Colonia la passione più matura, esala di tè la fase in cui la ragazza si fa donna.
Avere una stanza tutta per sé, come quella di Virginia Woolf, per aprire una sartoria è il sogno di quella fanciulla che, nella prima pagina del romanzo, cammina nella nebbia goriziana con rabbia, brividi e fame, eppure riuscendo a mutare il grigiore dei pensieri con la cantilena: «Non sono arrabbiata, non ho freddo, non sono povera».
Insegne, botteghe, sartorie, ambienti interni dettagliatissimi, particolari urbanistici e toponomastici, palazzi cittadini in cui risuonano cognomi storici: rivive la Gorizia che si affaccia al ‘900 in un incedere cronologico che arriva fino al dopoguerra. Resistono le violette sotto i colpi dei due conflitti, tra sospetti, paura, miseria, mercato nero, fughe, deportazioni, emigrazione, infoibamenti, bombardamenti. Colpisce il Natale del ’15 descritto sul fronte, a Gorizia e nel campo profughi. L’autrice ci fa sentire lo smarrimento: non si capiva perché una guerra mettesse i familiari su fronti opposti, così come poi non si capiva, nel conflitto successivo, chi fosse il vero nemico. Anela alla libertà Gorizia, passando da un padrone all’altro mentre gli imperi crollano. Mutano costumi e balli, e muta la protagonista portando scandalo, mentre la vicenda d’amore e guerra si sposta da Gorizia alle baracche del campo di Pottendorf, ai salotti di Vienna, e di nuovo sul confine, terra di mescolanze e fragranze, popoli che tentano una convivenza come a tentarla è Tilde in una famiglia allargata e spiazzante, retta da una donna capace di tenere insieme l’impossibile, perfino il diavolo e l’acqua santa sotto uno stesso tetto. Straniante è, del resto, la guerra stessa: mentre razza, etnia, appartenenza sono motivi di uccisione, uomini e donne continuano a cercarsi, sfiorarsi e innamorarsi, a far nascere vite come viole mammole.
Maura Garofoli indica due strade possibili nella famiglia e nella Storia: essere nemici e annullarsi a vicenda o andare oltre sé, restare insieme per un bene più grande. Il romanzo è dedicato alla madre Corinna, terza figlia di Tilde: «A mia madre, che mi ha insegnato a conoscere e amare le mie radici mitteleuropee».
