Nel libro autobiografico dell’autore di questa rubrica spicca la figura del padre, internato nei campi nazisti, esempio di dignità e rispetto per i più deboli. E di quanto valga il passato.
Il nostro è un tempo strano nel quale sembra che per essere liberi occorra, in tutti i modi possibili, rimuovere il nostro passato, la storia e le radici, ma è un’illusione molto pericolosa e dagli effetti devastanti. Ci rendiamo conto che l’aggettivo «devastante» è forte perché appunto devasta, distrugge, sconvolge così come un uragano.
Secondo voi, l’idea americana di alcune università di abolire lo studio dei classici perché sarebbero fomentatori di razzismo o l’ultima idea europea che non si possa dire «buon Natale» bensì «buone feste» per non offendere chi non crede in Gesù Cristo, non vi paiono fatti che possono essere devastanti? Non si campa senza il ricordo e la testimonianza del passato, senza la conoscenza di esempi che ci giungono dalla storia, modelli da imitare che provocano ammirazione, o da non imitare e che suscitano riprovazione.
Chi scrive queste cose ha avuto la fortuna di avere un modello molto vicino, che mi ha regalato l’esistenza insieme alla mia mamma: il mio babbo. Non ne ho mai scritto e mi sono deciso a farlo solo nel mio libro Le dieci cose che ho imparato dalla vita (Piemme) appena uscito. C’è un capitolo dedicato a lui, intitolato «La dolcezza e la dignità di un deportato piagato ma non piegato. Babbo Velio». Mio padre fu fatto prigioniero dalle truppe tedesche quel maledetto 8 settembre del 1943 quando si trovava alle dipendenze del Comando Aeronautico in Atene e fu internato nel Campo di concentramento Stamlager III 3D a Luckenwalde, 60 chilometri a sud di Berlino.
Fu poi liberato dalle Truppe Alleate il 22 aprile del 1945 e rimpatriato il 15 agosto dello stesso anno. Per lui e anche per me, oltre che la festa della Madonna, il 15 agosto più che Ferragosto è stato ed è nella mia memoria la Festa della Liberazione. Ho avuto modo di ricostruire la sua vicenda un po’ dai suoi racconti, anche se prematuramente scomparso, e molto dalle testimonianze di Alfio Bonturi, un amico di Lucca, della sua stessa borgata di Sant’Anna - è stata anche la mia - che per grazia di Dio (così dicevano entrambi) si trovarono, senza sapere l’uno dell’altro, nello stesso campo di concentramento e nella stessa baracca a pochi metri l’uno dall’altro.
Era anche un campo di smistamento dal quale i deportati venivano poi indirizzati ad altri campi, spesso di sterminio. Tra di essi, ovviamente, c’erano parte di quei sei milioni di ebrei trucidati dalla furia nazista. Il babbo mi ha raccontato varie volte che agli ebrei venivano tolti gli occhiali, poi calpestati sotto i pesanti scarponi delle SS. E questi poveri uomini, non riuscendo a vedere, non riuscivano più neanche a farsi la barba, cioè a mantenere quel minimo di dignità che consiste nella cura del proprio corpo, del proprio viso. Il mio babbo e il suo amico Alfio spesso facevano la barba a questi uomini subendo punizioni di ogni tipo: ciò che volevano le belve naziste, infatti, era esattamente l’annullamento dell’umanità di queste persone, il loro annientamento, la loro riduzione a un numero che veniva dato all’arrivo e sarebbe diventato, da quel momento in poi, il loro nome con cui quelle bestie li avrebbero chiamati.
Sono venuto alla luce nel 1958, nella stessa borgata umile in cui erano nati il mio babbo e la mia mamma. Allora il mondo virtuale non c’era, o meglio c’era ma era rappresentato dai sogni, non da una realtà che ti strappa la vita per prometterti un paradiso in terra, come oggi. Lo ritengo una grande fortuna perché mi ha fatto conoscere non un’idea, non una fantasticheria, ma un esempio vivente, il mio babbo. Non sto descrivendo le virtù di un superuomo, ma ciò che è accaduto.
Cosa è rimasto di quell’esempio? Andando al nocciolo, due fatti fondamentali. Il primo. Un grande rispetto per gli ebrei che il mio babbo descriveva come persone che, pur consapevoli del destino che le attendeva, incarnavano la dignità e la compostezza di uomini pii e altamente dignitosi. Il secondo. La dignità. Mi ha ricordato sempre che si può non avere nulla e mantenere la propria dignità. Raccontava che ogni mattina alle sei, rompendo il ghiaccio nei lavandini, potevano arrivare all’acqua sottostante e usarla per lavarsi e farsi la barba. Lo facevano per non cedere alla volontà di renderli animali, numeri, appunto. Diceva: «Caro bimbo, ti possono togliere tutto ma la dignità non te la può levare nessuno perché quella dentro di noi ce l’ha messa il Padre Eterno e di lì ’un ce la pole leva’ nessuno».
Non so se sono stato e sono all’altezza di quell’esempio. Probabilmente no, ma so quanto è importante conoscere modelli, testimoni, vicende e avventure di uomini che possono essere oggetto della nostra ammirazione.