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Il legale di Dell'Utri: «Il riferimento alla "trattativa" è uno slogan»



La Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha praticamente ribaltato la sentenza di primo grado del 2018: assolti l'ex senatore Marcello Dell'Utri («per non avere commesso il fatto») e gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno («perché il fatto non costituisce reato»).

  • Francesco Centonze, legale dell'ex senatore Marcello Dell'Utri: «Il riferimento alla "trattativa" è uno slogan»
  • Basilio Milio, legale del generale Mori: «La decisione rende verità e giustizia a un servitore dello Stato»

Si è concluso con un vero ribaltamento della sentenza di primo grado il processo d'appello per l'ex senatore Marcello Dell'Utri e gli ex carabinieri del Reparto operativo speciale di Palermo Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, condannati in primo grado a pene severe all'interno del complesso filone processuale chiamato a fare luce sulla presunta trattativa Stato-mafia, ovvero sulla teoria accusatoria secondo la quale organi dello Stato, all'indomani degli attentati di Capaci e Via D'Amelio, sarebbero scesi a patti con la mafia ai suoi più alt livelli per costringere i governi in carica ad adottare un atteggiamento più morbido nei confronti della mafiosi detenuto al carcere duro.

In primo grado la Seconda sezione della Corte di Assise di Palermo, all'udienza del 20 aprile 2018, dopo cinque anni dall'inizio del dibattimento, aveva condannato Dell'Utri, Mori e Subranni a 12 anni di reclusione e De Donno a otto anni. Sentenza chilometrica, compendiata in ben 5.252 pagine, in cui giudici sottolinearono che «l'improvvisa accelerazione che ebbe l'esecuzione del dottore Borsellino» fu determinata «dai segnali di disponibilità al dialogo - e, in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci - pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D'Amelio».

Le contestazioni agli imputati si basavano sul reato previsto dall'art. 338 c.p., aggravato ex art. 339 c.p., perché, «per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano ed in particolare il Governo della Repubblica, usavano minaccia – consistita nel prospettare l'organizzazione e l'esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali connessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni – a rappresentanti di detto corpo politico, per impedirne o comunque turbarne l'attività (fatti commessi a Roma, Palermo e altrove a partire dal 1992)».

Ora con la sentenza della Corte d'Assise d'appello di Palermo sono state confermate solo due condanne, quella a Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, e quella ad Antonio Cinà, il medico che curò proprio Riina e Bernardo Provenzano durante la loro latitanza, mentre la condanna inflitta a Vito Ciancimino, a otto anni in primo grado, era già caduta in prescrizione durante il dibattimento.

Ben delineate le posizioni di accusa e difesa: il teorema accusatorio voleva gli ufficiali del Ros essere scesi a patti con il gotha di Cosa Nostra per porre fine alla terribile stagione delle stragi che insanguinò il Paese tra il 1992 ed il 1993: da Capaci a Via d'Amelio, a Palermo, proseguendo per Via dei Georgofili a Firenze, Via Palestro a Milano, sino alla basilica di San Giovanni in Laterano ed alla chiesa di San Giorgio in Velabro, a Roma. Dunque una presunta trattativa che avrebbe spinto politici e carabinieri ad offrire l'attenuazione del carcere duro per i mafiosi reclusi, trattativa intavolata con Vito Ciancimino, potente ex assessore ai lavori pubblici (1959-1964) ed ex sindaco di Palermo (1970/1971), condannato definitivamente in Cassazione, nel 1992, a otto anni per associazione mafiosa.

La difesa degli ufficiali del Ros di Palermo, coordinato dall'allora colonnello Mario Mori, aveva, invece, sostenuto come tale trattativa, o «dialogo» con gli esponenti mafiosi, altro non fossero che operazioni di polizia giudiziaria basate su innovative tecniche info-investigative, giunte effettivamente al loro obiettivo, ovvero la cattura di Totò Riina, nella mattinata del 15 gennaio del 1993. Sempre nel primo grado, il senatore Dell'Utri - che all'interno di un altro filone d'inchiesta era già stato condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa - si era dovuto difendere dall'accusa di essere divenuto il tramite, tra il 1993 e il 1994, di una "minaccia mafiosa" di Bernardo Provenzano da far recapitare direttamente all'allora premier Silvio Berlusconi, al fine di piegarlo a addolcire la legislazione contro la criminalità organizzata.

Panorama.it ha dialogato con il legale del Senatore Dell'Utri, il professir Francesco Centonze, ordinario di diritto penale all'Università del Salento e alla Cattolica di Piacenza, e con il difensore del generale Mario Mori, l'avvocato Basilio Milio del Foro di Palermo - che aveva condiviso il suo mandato difensivo con il compianto professor Enzo Musco, scomparso lo scorso 11 giugno - per saperne di più sulla lunga e complessa vicenda sulla quale, nel tempo, si sono innestate narrazioni giornalistiche, editoriali, cinematografiche che ora dovranno confrontarsi con la sentenza d'appello. In attesa delle motivazioni.

Professor Centonze, lei ha rappresentato la difesa di Marcello Dell'Utri.

«Possiamo senz'altro esprimere, con il professor Tullio Padovani, Emerito di diritto penale alla Scuola Sant'Anna di Pisa e con l'avvocato Francesco Bertorotta del Foro di Palermo, gioia e soddisfazione per aver conseguito un risultato rilevante, ed aver rimediato all'ingiustizia della sentenza di primo grado che aveva condannato Marcello Dell'Utri a 12 anni di reclusione. È stato portato sollievo ad un uomo che ha già patito tanto».

Nel caso di Dell'Utri, la formula assolutoria è "per non aver commesso il fatto".

«Si tratta di una formula ampiamente liberatoria, e attendiamo le motivazioni per comprendere qualcosa di più. Intanto, occorre fare chiarezza sull'imputazione anche alla luce del dibattito mediatico spesso lontano dalla realtà del nostro processo. Uno storytelling alimentato dall'ignoranza delle carte processuali».

Una narrazione fuorviante?

«Il riferimento alla "trattativa" è uno slogan. Lo schema originario dell'imputazione sosteneva che i boss di Cosa nostra Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella -quest'ultimo cognato di Totò Riina - ovvero due delle eminenze grigie del clan dei Corleonesi, avessero incaricato Vittorio Mangano, noto alle cronache con l'appellativo di "stalliere di Arcore", di minacciare, per il tramite del dottor Marcello Dell'Utri, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nei primi mesi del 1994. Da qui l'accusa di violenza o minaccia a un corpo politico ai sensi dell'art. 338 c.p.».

Professore, mi perdoni, Dell'Utri che minaccia Berlusconi?

«Comprendo lo stupore! Si tratta della questione che ha percorso le vicende giudiziarie del dottor Dell'Utri, compresa quella del concorso esterno in associazione mafiosa. Sin da allora era parsa quantomeno singolare la sua collocazione dalla parte dei mafiosi, tanto che la Procura Generale della Cassazione si chiedeva in udienza nel 2012: "E' razionale che l'imputato - amico e collaboratore della vittima da cui veniva pagato - preferisca favorire la mafia contro Berlusconi?". E anche in quel caso la vicenda nasceva da una particolare pressione minacciosa cui le aziende del presidente Berlusconi e la sua famiglia erano sottoposte da tempo».

Ovvero?

«Il punto è che, alla luce dei noti rapporti di amicizia, oltre che professionali, tra Berlusconi e dell'Utri, collocare Marcello Dell'Utri dalla parte della mafia avrebbe richiesto solide dimostrazioni fattuali e giuridiche».

Già la sentenza di prima grado aveva abbandonato l'imputazione originaria.

«Infatti: la minaccia mafiosa di Brusca e Bagarella al presidente Berlusconi per il tramite di Dell'Utri si fondava, nella tesi originaria della Procura di Palermo, sulle dichiarazioni di Brusca stesso, dichiarazioni che, a parere della Corte di primo grado, non avrebbe però consentito di dimostrare la trasmissione di una minaccia di Cosa Nostra al Presidente Berlusconi in quanto il collaboratore riferiva fatti risalenti al periodo precedente all'instaurazione del Governo di Silvio Berlusconi, confondendo date, facendo racconti surreali, non ricordando i passaggi centrali».

Vicenda intricata…

«Addirittura, visto che Brusca non era stato ritenuto determinante ai fini della prova di una minaccia al Governo Berlusconi, la sentenza di primo grado compie una vera e propria acrobazia, resuscitando un pentito di mafia, Salvatore Cucuzza, che era stato ritenuto, con sentenza passata in giudicato dalla Suprema Corte, nel 2012, completamente inattendibile con riferimento alle dichiarazioni rese in merito ai presunti rapporti tra Mangano e Dell'Utri dopo il 1992. Il primo grado lo recupera proprio con riferimento a quelle dichiarazioni per sostenere che Mangano avrebbe effettivamente incontrato Dell'Utri dopo la vittoria di Forza Italia alle elezioni del 1994».

Di collaboratore in collaboratore…

«Recuperato il pentito Cucuzza, la Corte di primo grado è costretta a cambiare tesi e – come abbiamo letto nella sentenza - sostenere che Vittorio Mangano non avesse agito su incarico di Brusca e Bagarella, come affermato dalla Procura di Palermo nel processo di primo grado, ma di sua iniziativa, decidendo cioè autonomamente - a prescindere da un ordine di Brusca e Bagarella - di portare a Dell'Utri, la minaccia mafiosa e stragista.

Circostanza, questa, piuttosto incredibile.

«Mangano era un personaggio assolutamente minore nelle gerarchie di Cosa Nostra che neanche godeva della considerazione dei boss. Dunque, è stata la sentenza di primo grado ad aver trasfigurato l'imputazione, sino alla condanna. Che abbiamo ribaltato in Appello con un lavoro analitico e rigoroso».

E la questione sui presunti interventi normativi di Forza Italia che avrebbero favorito Cosa Nostra?

«Su questo punto le indagini integrative svolte dalla Procura Generale di Palermo hanno finalmente fatto chiarezza dimostrando, attraverso l'acquisizione di documentazione presso il Ministero della Giustizia, come il governo presieduto da Silvio Berlusconi e la Presidenza del Consiglio, in particolare, si siano sempre fermamente opposti a interventi legislativi che avrebbero potuto – anche indirettamente – favorire l'organizzazione mafiosa. I benefici a favore della mafia da parte del primo Governo Berlusconi sono una fake news».



Basilio Milio, legale del generale Mori: «La decisione rende verità e giustizia a un servitore dello Stato»



Avvocato Basilio Milio, lei ha rappresentato le ragioni difensive del generale Mario Mori.

«Siamo molto soddisfatti, io e il mio assistito, di questa decisione che rende finalmente verità e giustizia al generale Mori e agli altri ufficiali dei carabinieri e si pone nel solco di tutte le precedenti decisioni che hanno mandato assolto il mio assistito».


Torniamo indietro di 30 anni.

«Esattamente nelle settimane che seguirono la strage di Capaci, quando il capitano Giuseppe De Donno, ufficiale del Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri, incontrando casualmente su un volo per Roma Massimo Ciancimino, lo avvicinò per chiedergli di poter contattare il padre Vito al fine di ottenere informazioni finalizzate a catturare i latitanti e a scoprire gli assassini di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta».

L'incontro fu realmente del tutto casuale?

«Sì».

Quell'incontro fu la genesi di un passaggio fondamentale della nostra storia contemporanea.

«Perché si avviò quel contatto prima tra De Donno e Vito Ciancimino, fatto di due/tre incontri che possiamo definire di studio, e poi, all'indomani della seconda terribile strage di via D'Amelio, anche con il generale Mori».

Incontri investigativi o trattative? Questo è il punto!

«Gli ufficiali dei carabinieri hanno sempre affermato, fin da tempi non sospetti atteso che non erano nemmeno indagati all'epoca, ossia dal 1998, che quello fu un tentativo di avviare un rapporto investigativo con una fonte confidenziale, individuata in Vito Ciancimino. Attività di natura info-investigativa, quindi. Del tutto legittima, prevista come tale dalla legge e rientrante nelle funzioni e nelle competenze dei carabinieri».

Tutto riscontrato?

«Quanto sostenuto da Mori e da De Donno, negli anni, ha trovato riscontro nelle sentenze che hanno assolto il generale Mori nei due processi che hanno preceduto quello sulla cosiddetta presunta "trattativa", e anche nelle dichiarazioni rese dallo stesso Vito Ciancimino, a verbale, innanzi ai magistrati Giancarlo Caselli e Antonino Ingroia».

Nel corso di quegli incontri i carabinieri del Ros avviarono una lunga fase di studio di quell' interlocutore…

«Finalizzata esclusivamente alla cattura dei più pericolosi latitanti di mafia: quell'importante esponente della politica della Palermo degli anni '60 si spinse sino a chiedere che gli fossero fornite alcune mappe della città per cercare di contribuire ad individuare i luoghi in cui si nascondeva il "capo dei capi", Totò Riina. Vito Ciancimino, tuttavia, non potè dare alcun apporto perché le mappe che gli vennero fornite mancavano di talune zone della città di Palermo, sicchè egli ne chiese un'integrazione a De Donno. Ma prima che potesse riceverla venne arrestato».

Riina, infatti, sarebbe stato individuato e arrestato dal capitano Ultimo…

«Il capitano Sergio De Caprio svolgeva delicatissime indagini sul campo su incarico del generale Mori. Va detto che Ultimo arrivò a Riina con indagini del tutto autonome da qualsiasi apporto di Vito Ciancimino e di altri soggetti. Quell'arresto fu merito esclusivo di Ultimo e della sua squadra».

Nella sentenza di primo grado del 2018 emerse il concetto di «trattativa».

«Perché quell'attività info-investigativa avviata dai carabinieri con Ciancimino senior venne erroneamente qualificata come uno scambio: la cessazione immediata della strategia stragista da parte della mafia a fronte dell'impegno dello Stato a non prorogare circa 300 provvedimenti attuativi il carcere duro derivanti dall'applicazione dell'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario. Circostanza che, in effetti, si verificò nel 1993 grazie all'opera dell'allora Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso ma per ragioni che non hanno a che fare con alcuna "trattativa", "patto" e motivazioni di tal genere».

Il passaggio merita un approfondimento…

«Il Ministro della giustizia, in casi di particolare gravità per l'ordine e la sicurezza nazionale, può sospendere le normali regole di trattamento penitenziario dando luogo al cosiddetto regime carcerario "duro"».

Il periodo era di una gravità assoluta…

«E perciò consentiva al Ministro della Giustizia di applicare tutte le restrizioni necessarie nei confronti dei detenuti per mafia, finalizzate a impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni ramificate sul territorio. Solo che la prima applicazione, avvenuta all'indomani della strage di via D'Amelio, fu fatta per così dire, un po' "alla cieca", cioè portando al 41 bis soggetti che non erano nelle condizioni che legittimavano il provvedimento».

Intervenne addirittura la Corte Costituzionale.

«Per fissare i criteri cui attenersi nell'applicazione del 41 bis. Conso doverosamente vi si uniformò e decise di non prorogare il "carcere duro" a tutti quelli che, secondo i dettami della Corte Costituzionale, non presentavano i requisiti e le condizioni per esservi sottoposti».

Incuriosisce la formula assolutoria in favore di Mori…

«Ovvero "perché il fatto non costituisce reato", che porta a ritenere, nell'attesa del deposito delle motivazioni, che secondo i giudici d'Assise d'appello l'avvio dei contatti con Vito Ciancimino, nell' estate del 1992, non fosse finalizzato a una "trattativa" con l'associazione mafiosa, per come narrato sino ad ora, ma a carpire dal noto politico palermitano - che fu anche sindaco di Palermo dall'ottobre del 1970 all'aprile successivo - informazioni utili per catturare i boss Riina, Provenzano e gli altri latitanti, arginando così l'offensiva stragista. Come ritenuto da altre sentenze che hanno visto assolto Mori e che sono da tempo irrevocabili».

La finalità dei carabinieri fece la differenza, allora.

«Certamente. Lo ricordo con le parole di altri giudici che hanno assolto il generale Mori, nel 2013; quella di contattare Vito Ciancimino fu un'iniziativa "lodevole e meritoria" perché finalizzata, in quel drammatico momento storico, ad evitare ulteriori stragi».

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