Il disimpegno degli Stati Uniti da Kabul è un pessimo segnale anche per la piccola isola ribelle. Pechino non perde occasione per annunciare di essere pronta alla guerra, pur di annettere l'ultima «provincia separatista».
A Pechino i tamburi della propaganda sono entrati in azione a metà agosto, quando ancora il ritiro della Nato da Kabul era in pieno svolgimento. Lo scopo: proiettare nere ombre di paura su Taiwan, spargere la tesi che presto l'isola resterà sola e priva della difesa militare americana, e spingerla così verso le calde braccia di Pechino. Da allora, giornali e tv cinesi battono ossessivamente su un solo tema: l'Afghanistan è soltanto il primo passo, e il disimpegno statunitense ormai è evidente, globale, incontrovertibile.
In prima fila, come sempre, si è piazzato Global Times, il quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese che nelle cancellerie occidentali viene compulsato come fosse la voce stessa di Xi Jinping. Nell'ultimo mese, su Taiwan, ha pubblicato almeno sei tra articoli ed editoriali con l'evidente obiettivo di terrorizzare il governo di Taipei e d'indurre a più miti consigli l'opinione pubblica isolana, da sempre contraria alla riunificazione. Gli slogan del bollettino di regime sono brutali, ma efficaci: gli Stati Uniti, ammonisce il giornale, sono sempre più deboli e «inevitabilmente abbandoneranno Taiwan al suo destino, è solo questione di tempo».
La Repubblica popolare cinese, al contrario, «è sempre più forte, continua a prepararsi alla guerra, e mantiene ferma la volontà di unificazione con la provincia separatista di Taiwan». Ciliegina sulla torta, qualche giorno fa Global Times ha pubblicato in prima pagina perfino una vignetta che, a simboleggiare l'inaffidabilità statunitense, ritrae l'aquila americana che accompagna Tsai Ing-wen, la presidente di Taiwan, verso una botola aperta nel pavimento. Il titolo dell'articolo: «L'abbandono dell'Afghanistan sia una lezione per Taiwan».
Non è certo un mistero che, soprattutto da quando Xi Jinping è salito al potere, tra il 2012 e il 2013, la riunificazione della «Grande Cina» è ai primi posti nel programma del governo e al centro delle sue strategie espansionistiche. La rapida cancellazione di tutte le libertà civili a Hong Kong è stata il primo passo. Lo scorso luglio, per le celebrazioni dei 100 anni del Partito comunista, Xi ha ripetuto che «risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della Cina è una missione storica e un impegno incrollabile». Di recente anche il suo ministro degli Esteri, Wang Li, ha dichiarato solennemente che Taiwan è «parte inalienabile» del territorio cinese e che i due lati dello Stretto «saranno presto riunificati».
Non sono soltanto parole. In un preoccupante crescendo di preparativi militari, nell'autunno 2020 Pechino ha puntato su Taiwan i suoi nuovi ultimi subsonici DF-17, capaci di una gittata di 2.500 chilometri. Global Times ha spiegato che quei vettori sarebbero stati dispiegati nelle basi costiere di Zhejiang, Fujian e Guangdong, come mossa per «bloccare le interferenze degli Stati Uniti, del Giappone, della Corea del Sud e dell'Australia negli affari interni della Cina». Cioè nella lunga marcia per riprendere Taiwan. Liberty Times, quotidiano di Taipei, aveva sottolineato allora che i DF-17 hanno un raggio d'azione che per la prima volta avrebbe consentito alla Cina di colpire le basi aeree di Taitung e Hualien, nella parte orientale dell'isola. In seguito, l'Esercito popolare di liberazione cinese ha piazzato sulla costa anche i jet da combattimento «invisibili» J-20 e vi ha accumulato reparti di marine e mezzi anfibi, come se fosse in vista un'operazione di «riunificazione forzata».
È per tutto questo se, un anno fa, il governo di Taipei aveva chiesto rinforzi urgenti all'alleato statunitense, e la Casa Bianca di Donald Trump aveva permesso la vendita di sistemi d'arma difensivi, tra cui 200 missili Cruise. Pechino, ovviamente, aveva condannato la mossa. A partire da quel momento ha avviato un'intensa attività di violazione dello spazio aereo taiwanese: uno stillicidio di attacchi simulati, con il doppio scopo d'innervosire Taipei e di saggiare la capacità di reazione tattica della sua aviazione militare.
Dal 1° gennaio al 30 luglio, ben 380 caccia cinesi hanno violato lo spazio aereo taiwanese. L'attacco simulato più preoccupante risale a metà giugno, quando Pechino ha spinto uno stormo forte di 28 aerei, tra caccia e bombardieri, all'interno della Zona d'identificazione della difesa aerea di Taipei. Nel 2021, del resto, Pechino ha deciso di aumentare del 6,8% il suo già molto robusto budget bellico, portandolo oltre i 260 miliardi di dollari e investendo soprattutto in missili e aerei. Così, come un Davide che si prepara allo scontro con Golia, anche il ministero della Difesa della piccola Formosa ha deciso di aumentare la sua spesa militare: nel 2022 l'accrescerà del 5,2%, spingendola al record storico di 16,8 miliardi di dollari.
Non è una mossa isolata, nell'area, visto che aumenti simili hanno appena stabilito anche il Giappone e la Corea del Sud: Tokyo salirà a 50 miliardi di dollari, con un aumento del 2,6%, mentre Seul arriverà a 47,6 miliardi, il 4,5% in più. Ma l'incremento di Taiwan è stato deciso proprio lo scorso 1° settembre, il giorno in cui Kabul si è svegliata senza bandiere americane, e quindi sembra davvero dettato dalla paura dell'abbandono di Washington. Come se la propaganda cinese avesse fatto breccia.
In realtà, a meno che Joe Biden, il suo governo e il Pentagono abbiano perso completamente la testa dopo il disastroso rovescio afghano, l'America non può assolutamente abbandonare Taipei. Non può farlo, perché in quel caso gli Stati Uniti perderebbero una base strategica che, anche dopo il sorpasso per numero di navi realizzato nel 2020 dalla flotta militare cinese su quella statunitense, continua a garantire a Washington una posizione dominante in quell'area del globo. E non solo in campo bellico.
Il controllo delle acque taiwanesi, infatti, è centrale nella gestione dei flussi commerciali nella regione: più di un terzo delle merci mondiali viaggia nel Mar Cinese meridionale, e il Fondo monetario internazionale stima che oltre metà del commercio globale della Cina transiti attraverso quella porzione di Pacifico. Lo Stretto di Taiwan, insomma, è un collo di bottiglia cruciale nel Mar Cinese meridionale e il suo controllo costituisce un vantaggio inestimabile per l'Occidente, dal punto di vista commerciale ed economico.
Ma l'isola non è sacrificabile per un altro motivo, forse ancora più strategico: oggi le colossali fonderie di microchip taiwanesi producono più del 60% dei circuiti integrati assorbiti ogni anno dal mercato globale, e al momento garantiscono agli Stati Uniti la base della loro periclitante supremazia tecnologica sulla Cina. Una società da sola, la Taiwan semiconductor manufacturing company, produce un terzo dei semiconduttori venduti in tutto mondo.
Ovvio che, se un patrimonio del genere cadesse sotto le grinfie di Pechino, Xi Jinping avrebbe vinto la Terza guerra mondiale senza sparare un solo colpo. Biden potrà anche essere «sleepy», cioè addormentato, come sosteneva Trump in campagna elettorale. C'è quindi da sperare che Washington continuerà a difendere Taipei come difenderebbe le coste della California.
